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Asmarina, un documentario ricostruisce la memoria italo-eritrea

di Angela Caporale, 03 giugno 2016.

La storia dell’uomo è una storia di
movimenti, mutamenti, cambiamenti. È una storia di migrazioni.
Quello che oggi le contingenze storiche portano a interpretare come
un fenomeno a senso unico, in realtà ha coinvolto persone da tutte
le parti del mondo e non solo nell’ultimo secolo. 

Vi sono poi casi
in cui, al netto dei numeri, si può considerare il migrare come uno
scambio, condizionato da situazioni storiche e scelte politiche. Uno
di questi casi è l’
Eritrea,
piccolo Stato nella parte orientale del Corno d’Africa, colonia
italiana a partire dall’occupazione
di Assab
nel 1882.




Durante il Fascismo erano circa
tremila gli italiani che si erano trasferiti – dovremmo forse dire
che erano migrati? – ad Asmara
,
la capitale, e nelle altre città del Paese. Ancora oggi resistono
alcuni quartieri signorili dai nomi italiani, costruiti tra il 1936 e
il 1941, gli anni della grande espansione urbanistica della città.
Allo stesso periodo storico risale
Asmarina,
una canzone interpretata da Mimmo Carolei, italiano d’Eritrea, che
ha dato il nome al
documentario
di Alan Maglio e Medhin Paulos
,
girato tra Milano e Bologna per ricucire quello strappo alla memoria
collettiva che la diffidenza reciproca ha creato in questi anni, per
riscoprire e discutere parte di una storia comune che altrimenti
andrebbe dimenticata.



I due registi hanno sfogliato decine
di album fotografici per ricostruire le storie di più di un secolo
di movimenti e legami. Il risultato è

un mosaico che svela come le trame della storia e delle migrazioni
siano sempre più intricate di quello che sembra.

Se nei primi anni del Novecento il movimento migratorio aveva
interessato qualche migliaio di italiani partiti alla volta di
Asmara, la rotta si è invertita dopo il fallimento dell’ambizione
colonialistica da parte dello Stato italiano, scontratosi con una
strenua resistenza locale. 

È forte l’orgogliosa memoria della
vittoria
etiope di Adua
del
1896 e l’Etiopia, che ha compreso di fatto anche l’Eritrea fino
al 1991, è di fatto l’unico Stato africano (oltre alla Liberia) a
non aver mai subìto la dominazione coloniale. 

Dal punto di vista
degli italiani che, durante il Fascismo, si erano stabiliti lì, il
momento di svolta furono gli
anni
Sessanta.
Gli italiani
non erano più i benvenuti in Eritrea e sono stati forzati a tornare
in Patria, portando con sé quella che era diventata la loro famiglia
africana: mogli, figli, domestiche, operai.





Una volta in Italia, tuttavia, non è
stato semplice per gli eritrei integrarsi. In particolare, come
osserva Sabrina Marchetti nel suo libro
Le
ragazze di Asmara
, sembra non
essersi mai interrotto quel rapporto
di subordinazione tra datrice e prestatrice di lavoro domestico.
 

Il prezzo da pagare per poter accedere alla società italiana, sempre
secondo Marchetti, è assumere ruoli e lavori da altri ritenuti
degradanti. 

Tuttavia i risultati sembrano positivi, come racconta una
delle donne eritree intervistate: “
Per
tanti di noi eritrei, specialmente quelli arrivati prima, l’Italia
è la seconda patria.

Il carattere tra italiani ed eritrei

è abbastanza simile, quindi è come se fosse… ci sentiamo in
Asmara!
“.



Opinione condivisa anche dai molti
eritrei coinvolti nel documentario di Maglio e
Paulos. 
Asmarina traccia
una mappa della piccola Eritrea in Italia: si parte da Porta Venezia,
a Milano, fino ad arrivare a
Bologna.
Proprio il capoluogo emiliano è stato, durante gli anni Ottanta,
il
cuore pulsante dell’attivismo eritreo in Europa.
 

Ogni anno erano migliaia, in alcuni casi più di 20mila, gli eritrei
che si riunivano per discutere di ciò che accadeva nel Paese
d’origine, per promuovere iniziative a favore dell’indipendenza
dall’Etiopia, per far conoscere un po’ di più la cultura
eritrea.



Il ruolo di Bologna è andato
affievolendosi negli anni, per riprendere vigore recentemente anche
per merito di Abraham
Tesfai
. Arrivato in Italia nel 2008 a 19 anni è oggi una delle
anime di
Eritrean Youth
Solidarity for Change
,
associazione molto attiva in Europa con lo scopo di sensibilizzare su
ciò che accade nell’ex colonia italiana.





L’emigrazione dall’Eritrea,
oggi, è spinta da ragioni nuove
,
a cominciare dal potere politico assoluto, dal 1993 nelle mani di
Isaias Afewerki.
L’Eritrea
è un Paese
senza diritti
: non
esiste stampa indipendente, dal 2001 più di 50 giornalisti sono
stati arrestati, Internet raggiunge solo l’1% della popolazione, ma
soprattutto
il servizio
militare obbligatorio

viene sistematicamente prolungato
ad
libitum
. Istituita nel 1995,
la
Sawa
in teoria dovrebbe durare 18 mesi, in pratica si trasforma in un
incubo che segna intere generazioni. Caratterizzato da una paga
misera (meno di 2$ al giorno) e da condizioni di vita poco dignitose,
il servizio militare sarebbe sopportabile, se almeno fosse possibile
intravederne una fine.




Daniel Ocbe
è un rifugiato eritreo in Svizzera, oggi lavora con l’Eri-Info
Zentrum perché nessun altro viva quello che ha subìto sulla sua
pelle. “
A nessuno è
permesso di lasciare il servizio militare,
è
come vivere un tempo illimitato in prigione
:
nessuno può davvero capire qual è la nostra realtà
.”
Come Daniel sono 4/5 mila gli eritrei che, ogni mese, lasciano il
Paese alla volta del Sudan, della Libia, dell’Europa. 

In
Sudan,
racconta ancora
Daniel
, ci sono i grandi campi
dell’UNHCR, ma ci sono anche bande di criminali e trafficanti che
rapiscono i migranti. Se gli avessi detto di essere cristiano, mi
avrebbero colpito e picchiato come se fossi stato una scimmia
.” 

Trasportati nel Sinai, in Egitto, i
migranti eritrei
vengono trattenuti in stanzoni vuoti, privi di
qualsiasi norma igienica e torturati finché le famiglie non riescono
a pagare il riscatto.
 

In Italia (e in Europa) ci si è
accorti del gran numero di eritrei in fuga da tali barbarie
soltanto
dopo i morti di Lampedusa:
 quasi
tutte le 366 persone che hanno perso la vita il 3
ottobre 2013
erano partite proprio da Asmara e dalla terra
eritrea.
Nel 2015 gli
eritrei sono stati il terzo gruppo di migranti e profughi arrivati in
Europa, in Italia più di 40 mila.

Molti di quelli che scappano sono giovanissimi, ma rischiano di
finire in carcere nel loro Paese dove chi emigra è punito come
traditore. 

Molti dei figli delle famiglie eritree ed etiopi di porta
Venezia a Milano sono diventati volontari e mediatori per i profughi
arrivati negli ultimi anni dall’Eritrea. 

Sembra quasi essersi
creato un legame solidale tra eritrei e gli italiani per una volta
dalla stessa parte per aiutare chi ha bisogno. 

Che sia giunta l’ora
di raccogliere le redini della storia passata e ricucire gli strappi
della memoria condivisa?




FONTE: Voci globali