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Tradurre la Dickinson con Google

di Camilla tagliabue,
treccani, 02 Maggio 2016.

L’ultima a finire “lost in
translation”, maciullata nel tritacarne del traduttore automatico,
è stata Emily
Dickinson
, eppure è da anni che filosofi, linguisti e letterati
si interrogano sulla possibilità e bontà della tecnologia, o meglio
di un algoritmo in grado di traghettarci meccanicamente da una lingua
all’altra. 

Nel 2003, ad esempio, Umberto Eco mise alla prova Babel
Fish, l’allora traduttore automatico del motore di ricerca
Altavista, e i risultati furono esilaranti: «The Works of
Shakespeare» divenne «Gli impianti di Shakespeare», mentre
«Studies in the logic of Charles Sanders Pierce» fu trasformato in
«Studi nella logica delle sabbiatrici Peirce del Charles».

Ricerche più recenti, tuttavia, hanno
dimostrato i notevoli passi avanti della traduzione automatica: dieci
anni dopo l’antenato Babel Fish, Google
Translate è stato in grado di decrittare senza fallacia i precedenti
sintagmi, ma la strada – per le intelligenze artificiali della
chiacchiera – è ancora in salita, come dimostra lo spassoso e
intelligente «esperimento con i versi di Emily Dickinson», condotto
da Marzia Grillo e recentemente edito da elliot con il titolo Charter
in delirio!
(pagg. 64, €
7,50).



Dai quasi 1800 componimenti della
poetessa americana è stata estrapolata una succinta cernita di 22
liriche, pubblicate nella versione originale con «traduzione
automatica a fronte»: i risultati variano dagli errori più
grossolani («mine» traslato in «miniera» anziché in «mio»;
«league» diventa «campionato» e non semplicemente «lega»; «gay»
rimane «gay» anche quando significa «gaio», non omosessuale e
così via) alle trovate di genio, benché abissalmente distanti dal
significato originario.



Più che in senso letterale, queste
versioni vanno giudicate in modo letterario, con un pizzico di ironia
e cum grano salis. Solo così è possibile apprezzare la
fattura poetica e profetica dei «Charter in delirio» (al posto del
«delirante contratto»), o dei «Brividi di Api», degli «Acquisti
di Farfalla» e delle «Piste di Peluche», ma anche di più
articolate traduzioni come: 

«Un amico ombreggiato – per giorni
Torridi –/ è più facile da trovare –/ di uno di temperatura
superiore/ per la Frigida – ora della Mente». 

Non mancano neppure
spiazzanti riferimenti all’attualità, quali la «Natura nel
patrimonio netto» o «Il suo Disegno di legge è una Trivella».



Nella postfazione, la traduttrice di
carne e ossa Martina Testa si è «divertita a immaginare che il
traduttore automatico di queste pagine fosse un nerd, o più
specificamente un geek, un patito di tecnologia e informatica; che
tendesse al concreto piuttosto che all’astratto e fosse piuttosto
alieno agli slanci sentimentali. Un maschio, che in breast legge
sempre “seno” e mai semplicemente “petto”». 

Infatti, la
risemantizzazione avviene perlopiù «verso i campi della tecnologia
e dell’informatica» o si appiattisce sul lessico contemporaneo
spicciolo: la (pianta) digitale, per l’amico algoritmo, è per
forza il digitale, così come il web è necessariamente il sito web e
lo spot è uno spot. 

Magie della globalizzazione linguistica!



Stupefacenti, inoltre, sono alcune
«soluzioni ritmiche» elaborate dal computer, le quali «sembrano,
nella loro semplicità, perfettamente riuscite, ad esempio la coppia
di settenari: 

“Ho derubato il bosco/ il bosco fiducioso” o
l’endecasillabo “La guancia della bocca è più paffuta”».
Anche la curatrice del libricino, da un lato, constata i «passi
falsi dei traduttori automatici, simili a quelli degli studenti di
una lingua straniera alle prime armi», dall’altro, viceversa, è
felicemente meravigliata dai versi algoritmici «totalmente
imprevedibili, oscuri e sorprendenti». E che cos’è la poesia se
non produzione di meraviglia?




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