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Somali Faces, volti e storie del “popolo dei poeti”

25 Maggio 2016.


 

Due giovani fotografi
viaggiano in tutto il mondo raccogliendo le testimonianze di somali
di ogni età per conservare la memoria di un popolo straordinario. E
per urlare al mondo che la Somalia è molto di più di pirateria e
violenza.






Da quando è scoppiata la
guerra civile, verso la fine degli anni ’80, milioni di somali
hanno trovato rifugio in diverse parti del mondo, mentre altri sono
rimasti nella Regione. Qualcuno ha abbandonato la speranza di
tornare, ma molti altri serbano ancora il sogno di andare, un giorno,
a casa. 

E ancora, se milioni di somali sono nati nel paese che li
ospita, ci sono tantissimi altre persone nate nel mezzo della brutale
guerra civile che insanguina i territori somali.



Donia Jamal Adam e
Mohammed Ibrahim Shire sono due fotografi appartenenti alla grande
diaspora somala. 

La loro identità è messa a dura prova dalle
immagini con cui facilmente viene descritta la nazione somala:
terrorismo, violenza, pirateria. Queste sono le storie che i grandi
media tendono a coprire. Con il loro progetto Somali
Faces
,
Sonia e Mohammed intendono invece mostrare i volti della
profonda cultura somala, fatta di armonia e resilienza.



“Vogliamo far sapere al
mondo che c’è qualcosa di più dello stereotipo del terrorista,
del fastidioso
rifugiato
,
del pirata armato fino ai denti e del signorotto della guerra”,
hanno dichiarato i fondatori del progetto. “Vogliamo mostrare la
resilienza senza tempo del popolo somalo, l’ordinarietà delle loro
lotte individuali, vogliamo far sentire la voce che grida contro gli
stereotipi. Siamo tutti, semplicemente, esseri umani”.



Il popolo somalo ha molto
da raccontare. Non soltanto storie di sofferenza e di dolore, ma
anche di speranza e grande intraprendenza. Va considerato inoltre
che un importante aspetto della cultura somala è la poesia: la
scrittrice canadese Margaret Laurence si riferì alla Somalia come
alla “nazione
dei poeti
“.



“Vogliamo anche
ricordare al popolo somalo, con compassione ma decisione, che bisogna
superare il tribalismo che ha afflitto da decenni la nostra nazione,
e comprendere che tutti i nostri co-etnici hanno
le loro lotte, i loro sogni, i loro rimpianti e loro aspirazioni”.



Somali
Faces
 vuole
far conoscere le storie che non vengono raccontate, raccogliendo
testimonianze da Mogadiscio ai più sperduti villaggi
dell’Alaska, se possibile. Perché, per dirla con le parole dei
fondatori, “ogni somalo ha una storia da raccontare, che si tratti
di un bimbo o di un centenario”.


“Sono un padre single,
e non è facile crescere da solo 7 figli. All’inizio della guerra
civile in Somalia, molte famiglie si sono sgretolate. Avevo una
moglie, la madre dei miei figli. Quando è caduto il
governo centrale, lei ha espresso il desiderio di emigrare, pensando
che là fuori ci sarebbe stato una sorta di paradiso ad attenderci.
All’epoca ho ritenuto che la cosa migliore sarebbe stata rimanere
qui nel Paese, crescendo i nostri figli in una zona più sicura. Ma
lei non è rimasta soddisfatta da questa opzione.
Successivamente mi ha chiesto dei soldi per andare da un medico in
Yemen. Ho pensato che forse una breve pausa le avrebbe fatto bene, le
ho quindi dato i soldi e lei è andata, lasciandomi i 7 figli da
accudire. Mi sono preoccupato molto, fino a quando – dopo 7 lunghi
mesi senza comunicare – mi ha contattato dandomi un ultimatum:
trasferirci tutti in Yemen o avviare le pratiche per il divorzio. Le
ho detto di non avere i soldi necessari per far viaggiare 8 persone,
i bambini erano ancora a scuola e io ero un semplice operaio.
Dopo 4 mesi mi ha chiamato minacciando di nuovo il divorzio, dicendo
di aver trovato una nuova vita in Yemen. Temendo di perderla, ho
investito ogni cosa per andare da lei ad Aden, in Yemen.
L’abbiamo cercata per 4 anni consecutivi, e avvicinandoci al quinto
anno ho scoperto che lei si era già trasferita in Europa, dove
si è creata una nuova famiglia. È passato un altro po’
di tempo, prima che mi chiamasse nuovamente per chiedere il
divorzio. Con il cuore in frantumi, le ho spedito i documenti
richiesti. 

I miei figli ed io abbiamo immediatamente lasciato lo
Yemen per tornare a Garowe, dove stanno continuando a studiare. Forse
è qualcosa che Dio ha predestinato, e io l’ho accettato”.



(Garowe, Somalia)


“Sono nata in Pakistan,
cresciuta negli Stati Uniti e attualmente vivono ad Hargeisa.
Mi sono trasferita ad Hargeisa all’età di 10 anni, dopo la tragica
morte di mia madre (che Dio le conceda il Paradiso). Nascere da due
famiglie nomadi e molto ignoranti mi ha insegnato molto. 

Mi
ha dato il desiderio di essere istruita e di soddisfare i miei
genitori attraverso il mio successo. Da quando mia madre è morta
sono stata sempre giudicata severamente, ogni giorno, dagli anziani
della nostra comunità somala. 

Ho sempre voluto essere una
conduttrice di telegiornali, la mia famiglia ha sempre scherzato
sulla mia voce squillante e sulla mia eccessiva loquacità. Mi sono
quindi posta degli obiettivi: essere conduttrice, insegnante, moglie
e madre. 

Ho iniziato a lavorare a 16 anni ala sezione inglese della
Radio Hargeisa. Poi ho accontentato mio padre e ho studiato Sanità
pubblica in un’università locale, dove mi ho trovato l’amore.
A 17 anni non avrei mai pensato di sposarmi, ma ho incontrato
mio marito e ho capito che era l’unico per me. Alhamdullilah,
siamo  sposati da due anni, ora ne ho 19. 

Sono riuscita a
creare un mio personale percorso didattico, insegno inglese ad
altri somali. Dove c’è una volontà, c’è una via. Nonostante
l’infanzia dura, l’ambiente sociale disagiato, le etichette che
la gente attacca addosso, ricordate una cosa: potete sempre rendere
le cose possibili”.


(Hargeisa, Pakistan)

“Siete una famiglia
forte, quali sono le vostre caratteristiche migliori?”

“Mi
piace la sua personalità rilassata, non serba mai rancore nei miei
confronti e, soprattutto, è una superdonna. E sta crescendo
magnificamente sia il bambinone adulto che sono io che
nostra figlia”.
“Lui è un padre meraviglioso, ama nostra
figlia e, sebbene lavori tantissimo, adempie a tutte le sue
responsabilità”.


(Londra, Regno Unito)

“Le persone si lasciano
andare facilmente ai pregiudizi”
“Cosa intendi?”
“Mi
interesso di ingegneria aerospaziale. Eccello in matematica, in
fisica e in inglese, sono stato accettato all’università dove mi
sono candidato ma tutto quello che le persone notano è che indosso
sempre un cappuccio”.


(Leicester, Regno Unito)

“Sono arrivato in
Arabia Saudita nel 1953. Sebbene sia un paese musulmano, noi africani
neri ci siamo sentiti inferiori, ci hanno trattati da inferiori.
L’Arabia Saudita era all’epoca un paese molto povero e la
vita è stata una continua lotta. Non ho ottenuto alcun permesso per
lavorare, sono stato quindi costretto a lavorare illegalmente per
sopravvivere. Qualsiasi lavoro trovassi andava bene, pur di arrivare
al pasto successivo. Messo da parte abbastanza denaro, nel 1956 ho
lasciato l’Arabia Saudita e sono arrivato nel Regno Unito. 

Ho
pensato di essere approdato alla terra promessa della modernità, al
luogo che avrebbe dato istruzione e conoscenza. Ho invece visto
persone dalla faccia sporca, le cui mani erano coperte di catrame. Ma
è stato bello essere retribuito. Ogni settimana, dopo aver pagato le
tasse, mi rimanevano 5 sterline. Mi sono sentito ricco”.



(Cardiff, Regno Unito)




“Per anni ho
frequentato un corso che non mi ha dato soddisfazione, soltanto per
compiacere i miei genitori. 

Di recente ho trovato il coraggio per
cambiare e iscrivermi a un corso che mi è sempre piaciuto, sin da
quando sono stata bambina. Uno dei mi più grandi sogni: la
zoologia”.
“Non penso di aver mai sentito di una somala
studiare zoologia”.
“Neanch’io, se è per questo”
“Il
mio consiglio? Fa’ qualcosa che ti possa davvero rendere felice”.


(Londra, Regno Unito)

“Qual è la tua più
grande ambizione?”

“Rendere il mio paese grande, di nuovo. Ho
visto immagini su com’era la Somalia prima che nascessi. Prima
della distruzione. Ho fissato quelle immagini tantissimo, e mi sono
sentito spaesato. Com’è possibile che tutto questo,
all’improvviso, è andato via? Poi mi sono arrabbiato, mi sono
chiesto perché non sono nato in quella generazione che si è goduta
la pace ed ha vissuto dignitosamente. Mi sono chiesto come ha potuto
quella generazione lasciare a noi questo macello. Poi ho iniziato a
pensare che, sebbene la mia generazione non l’abbia mai visto, ciò
che è stato distrutto può essere costruito di nuovo. E ho sorriso.
Voglio che la mia generazione renda questa terra nuovamente prospera,
se Dio vuole”.



(Mogadiscio)

“Cosa pensi del popolo
somalo?”

“Penso che somali e marocchini siano un unico popolo.
Siamo entrambi musulmani. Ricordo quando il Marocco e la Somalia sono
state le uniche due nazioni africane a rigettare i confini decisi
dalle potenze colonialiste. Abbiamo entrambi combattuto duramente per
la nostra terra. Negli anni ’70 la Somalia è stata molto attiva
nella scena africana. Ha agito molto contro il colonialismo.
All’epoca ho pensato che si potesse unire l’Africa intera, ma poi
le cose sono andate diversamente. Parlo molto di questo con i somali
che vengono qui. Quando dico loro di essere arabi, alcuni lo
accettano con orgoglio, altri dicono invece di essere africani. E io
rispondo loro: possiamo essere sia arabi che africani”.



(Marrakesh, Marocco)

“Siamo stati da qualche
parte in Nord Africa per quasi 4 mesi. Una volta compreso che le cose
sarebbero andate per le lunghe, ho deciso insieme ad un amico di
cercare fortuna in Tunisia. Abbiamo camminato nel torrido deserto del
Sahara per 2 giorni. Poi abbiamo litigato, e le nostre strade si sono
divise. Continuamente disidratato, ho vagato alla ricerca di acqua.
Ma all’improvviso ho sentito qualcosa o qualcuno toccarmi il
braccio sinistro. Mi sono voltato: un enorme serpente velenoso aveva
avvolto la bottiglia di plastica che brandivo inutilmente. Il terrore
del suo sibilo minaccioso mi ha dato la forza per scappare. Ho
implorato Dio di risparmiarmi. Ho continuato a correre, ma la
disidratazione ha avuto la meglio e sono svenuto. Questo è il
deserto del Sahara: il momento in cui perdi i sensi coincide con il
momento della tua morte. Ma sono stato fortunato: un mio amico ha
seguito le mie orme e ha trovato il mio corpo esanime. Mi ha dato
dell’acqua. Mi ha salvato la vita”.

(Colonia, Germany)

“Sono cresciuto in
Siria, insieme ai miei fratelli. Ho studiato là fino al liceo. Unico
ragazzino nero in tutta la classe, le insegnanti mi hanno trattato
benissimo. Non sapendo il perché di questo trattamento, mi è stato
poi spiegato: prima della guerra civile somali e siriani sono stati
in ottimo rapporto. Ci sono stati frequenti programmi di scambio
culturale tra i due popoli, prima della distruzione. 

I professori mi
hanno raccontato che i momenti passati in Somalia sono stati i più
belli della loro vita, che i somali li hanno accolti benissimo e li
hanno fatti sentire a casa propria. Oggi ho il cuore a pezzi
perché quelle persone, che a loro volta mi hanno mostrato
tantissimo amore e generosità, sono dilaniate da una guerra
sanguinosissima. Loro hanno forgiato la mia personalità. Un giorno
la Siria tornerà stabile e regnerà la pace, e io restituirò il
favore, in un modo o in un altro”.



(Leicester, Regno Unito)


FONTE:  Frontiere News