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Siria: cosa non vuol dire perdonare

di
مرسيل شحوارو,
translated (en) by Lara Al Malakeh, tradotto da Filomena Pelosi, it.globalvoices, 09 Maggio 2016.


Questo
post fa parte di una serie
speciale
di articoli della blogger e attivista Marcell Shehwaro,
che descrivono la vita quotidiana in Siria durante il conflitto
armato in corso tra le forze leali al regime e coloro che cercano di
ostacolarlo.



All’inizio, ero bellissima, e dentro
di me avevo la bellezza potente della rivoluzione, la convinzione che
fossimo qui per portare un cambiamento e che l’odio non potesse mai
essere uno strumento di questo cambiamento; non avevamo alternativa
che essere pazienti ed aspettare che gli altri rompessero il muro di
silenzio e umiliazione e si unissero a noi. Credevamo che tutti
avessero il proprio destino, dovevamo aspettare i loro primi vagiti. 

E abbiamo aspettato.

Avevamo abbastanza lusso, comodità,
chiarezza nella visione e spazio per più dolore. Seguivo le foto dei
soldati dell’esercito morti, pubblicate sui social media. Mi
offendevano le persone che ridicolizzavano la loro morte. Leggevo i
commenti di madri, fratelli, sorelle, amici, fidanzate. 

Le vittime
erano giovani uomini sulla ventina. 

Ero diventata così ossessionata
che cercavo le loro pagine personali per scoprire di più sulla
persona che stava dietro al viso della vittima, o del colpevole,
o di entrambi.


Avevamo abbastanza lusso,
confort, chiarezza nella visione e spazio per più dolore. Seguivo le
foto dei soldati dell’esercito morti, pubblicate sui social media. Mi
offendevano le persone che ridicolizzavano la loro morte. Leggevo i
commenti di madri, fratelli, sorelle, amici, fidanzate.”


Ad alcuni era stato fatto il lavaggio
del cervello. 

Ci consideravano dei criminali o dei vandali sostenuti
da Israele, che volevano minacciare la sicurezza del Paese. 

Un Paese
che loro credevano avrebbe combattuto i suoi nemici grazie alla
saggezza del suo Presidente, del quale sapevano solo che era
insostituibile. 

Erano così ossessionati dal voler difendere il loro
Paese fino a distruggerlo.


Altri erano seguaci di ideologie
faziose, portatrici di paura e odio. Credevano che li avremmo
influenzati tutti, e che il nostro obiettivo non fosse la democrazia,
ma che eravamo guidati da un rancore verso di loro, le loro famiglie
e le sette. 

Un rancore che loro credevano li avrebbe ingoiati, se
loro non lo avessero ingoiato per primi.


Altri, invece, le cui pagine erano le
più dolorose da vedere, erano agitati davanti alla loro morte.
Contavano le ore fino al giorno della partenza, che le loro madri non
avrebbero potuto vedere, in attesa della promessa della licenza
dall’esercito che non veniva mai rispettata.


Allora ho potuto vedere loro, come
noi, vittime di un regime che ci ha costretto a scendere in strada
per rovesciarlo, e li ha obbligati ad ucciderci per mantenere il
controllo del governo.



A poco a poco, la lista è diventata
troppo lunga per me per poter seguire i loro profili personali e i
loro sacrifici. Detenuti e martiri. Correvo da un funerale all’altro.
Stavano uccidendo troppi di noi, e il peso si sentiva sempre di più
sulle mie spalle. La povertà e il lavaggio del cervello non erano
più una scusa. La paura non bastava più a scusarci per essere
diventati una macchina da guerra. Ai miei occhi, ha iniziato a
diventare un tutt’uno con il colpevole e il suo viso, il suo lavoro e
tutto ciò che lo riguardava. 

Ai miei occhi, sono diventati tutti
Bashar Al Asaad, non solo le sue vittime. 

A poco a poco ha iniziato
ad indietreggiare, nascosto nel suo palazzo mentre la manifestazione
più vera di ciò lui e il suo regime erano era l’aguzzino in
prigione, il soldato sul campo, l’elicottero nel cielo.



Ci era rimasta poca energia, e non ci
bastava per combattere contro noi stessi e per combattere contro
l’idea semplicistica di considerarli dei meri “assassini”. Lo
sforzo di considerarli come noi divenne estenuante, stavamo
diventando di più come loro, assassini, che come noi, vittime.


Ai miei occhi, ha iniziato
a diventare un tutt’uno con il colpevole e il suo viso, il suo lavoro
e tutto ciò che riguardava lui. Ai miei occhi, sono diventati tutti
Bashar Al Asaad, non solo le sue vittime.
A poco a poco ha iniziato
ad indietreggiare, nascosto nel suo palazzo mentre la manifestazione
più vera di ciò lui e il suo regime erano era l’aguzzino in
prigione, il soldato sul campo, l’elicottero nel cielo.”


Avevano la capacità di godere dal
torturare qualcuno a morte. Davano ordini di usare armi chimiche, o
di accoltellare a morte un bambino a Houleh, Homs. Un massacro che ci
ha tolto ogni possibilità di combattere l’odio. Il nostro odio è
diventato parte della nostra battaglia per l’esistenza. Avevamo
bisogno della rabbia per sopravvivere, per capire di nuovo che la
violenza nei nostri confronti non era “normale” o “ordinaria”.
Avevamo bisogno della rabbia per liberare le nostre vite e rifiutarci
di darla vinta alla morte. 

“Vale la pena di vivere la vita”:
vero, forse, ma in questa non c’è più abbastanza bontà per
permettere all’assassino e alla vittima di vivere insieme.



Da quel giorno non abbiamo più avuto
paura di ucciderli.


Dopo, era logico per l’ISIS emergere
dal nostro odio. 

Con la loro presenza, abbiamo iniziato ad avere di
nuovo paura in zone dove pensavamo di aver già pagato abbastanza con
il sangue. In Siria, niente è gratis; tutto ha un prezzo,
soprattutto i diritti. Sono di nuovo alla casella di partenza,
cercando di fare amicizia con questo nemico. 

Questa volta, mi
giustifico dicendo che loro sono stati vittime di violenza e odio.
Vittime con una causa giusta contro un mondo che ha ignorato loro e
tutto ciò che è successo loro.


Alcuni di loro erano radicalizzati, e
ai loro occhi noi eravamo infedeli sostenuti dagli USA per
distruggere il Levante. 

Altri erano mossi dall’odio, dalla paura e
dalla rabbia, credevano di essere gli unici a difendere lo Stato
dell’Islam. Altri erano attratti dalle immagini di foreign fighter,
armati fino ai denti, rispetto alle loro armi sgangherate e alle
poche munizioni. 

Erano ragazzi che credevano che l’ISIS fosse una
partita di Counter Strike nella vita reale. 

Fino a ieri, alcuni erano
“uno di noi”, vittime come noi, fin quando si sono annoiati di
giocare a questo gioco, hanno capito che sarebbero morti comunque, e
hanno deciso di non voler morire da vittime ma da assassini.


Altri erano mossi
dall’odio, dalla paura e dalla rabbia, credevano di essere gli unici
a difendere lo Stato dell’Islam. Altri erano attratti dalle immagini
di foreign fighter, armati fino ai denti, rispetto alle loro armi
sgangherate e alle poche munizioni. Erano ragazzi che credevano che
l’ISIS fosse una partita di Counter Strike nella vita reale…”


Mi sono abituata in tempo, più
velocemente questa volta, al ciclo vittima/assassino. 

Ho perso la mia
compassione per loro e quel senso di colpa che provavo chiedendomi se
potessimo fare qualcosa per impedire che diventassero più pazzi.


Sono diventati i nostri nemici.
Riuscivo a malapena a provare dolore. 

Il dolore che mi era rimasto
non bastava per le centinaia di vittime che morivano ogni giorno,
anche se loro non avevano ucciso nessuno. 

E la mia ossessione è:
cosa può essere considerato giusto oggi? Come decidiamo chi è la
vittima di un regime oppressivo, locale o universale, e chi è il
fautore di questo regime e il suo profeta? Qual è la giusta
punizione per una pedina del gioco di potere, soldi e paura?



Vorrei che l’anima della rivoluzione
fosse abbastanza per me per permettermi di perdonarli tutti, anche
solo “nella mia testa”.
Vorrei che solo uno dei sostenitori
del “perdona e dimentica” potesse garantire che questo
perdono risparmierà la Siria da questa follia, che sta accadendo di
nuovo, e che non sia invece un premio per gli assassini.


Vorrei che questo perdono non
significhi la nostra complicità nel dimenticare i diritti di coloro
che non ci sono più, delle vittime, perché loro sono i più deboli.
Vorrei poter odiare tanto il regime e trovare ai suoi angeli della
morte svariate scuse. Vorrei poter odiare l’ISIS a morte e trovare ai
suoi giovani soldati migliaia di scuse.



Ma sono destinata ad essere
arrabbiata. 

Sono furiosa per essere sopravvissuta. Sono furiosa per
la mia incapacità di cambiare ciò che è stato e che sarà.


Si può provare dolore da entrambe le
parti, quanto lo si desidera, ad ogni livello di dispiacere o
ipocrisia. 

Che si tratti della persona che ancora combatte per il
regime, o di coloro che hanno dichiarato fedeltà all’ISIS. Si può
provare dolore per entrambi, se si ha ancora spazio sulle spalle. Ma
non si può sfruttare questo ciclo di vittima/assassino e chiudersi
in questo. Farci pressione fino a farci dimenticare chi eravamo e
cosa abbiamo perso. Obbligarci a perdonare e dimenticare. 

Non potete
farci tutto questo senza dimostrarci, per una volta, in che modo
questo perdono impedirà alla storia di ripetersi di nuovo.



Non potete farci tutto questo senza
dirci come la vostra posizione, distante da tutte le parti, possa
garantirci un po’, e solo un po’, di giustizia.