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Poesia del giorno. Lynda Hull

di
Redazione Italia, 25 Maggio 2016







JACKSON
HOTEL




A volte dopo
ore di vino riesco quasi a vedere


la notte che
plana, bassa alle spalle del porto


lungo le
interminabili vie di vetrine


oltre i
manichini dai gesti perfetti.


Lascio
l’acqua fumante sul fornello a gas


e a volte
riesco a sfuggire al mio corpo,


quasi trovo
l’unica parola che evita le sere


che non
assolvono niente, un inverno vissuto da sola


e al freddo.
Stanze in cui in qualche modo sposi


i lutti di
estranei che tremano


sulle pareti
come le mani


della
ballerina della porta accanto, luminosa


di
metredina, che tamburella sui muri per ore


farfugliando
dell’argento che giura


riveste
l’edificio, i corridoi


dove ogni
notte gli ubriachi biascicano


il solito
rosario finché non ammutoliscono


sotto ai
numeri ossidati, alle lampadine


che sono le
stelle di ogni soffitto.


Vi devo dire
che ho paura di starmene qui


a perdere me
stessa nell’ora del lento cancellarsi


al punto di
non riconoscere me stessa se non da questo peso


freddo,
questa mano sul mio grembo, supina.


Voglio
fermare le mani della ballerina


tra le mie,
parlare del perdono


e di ciò
che ci lasciamo alle spalle—facce


e città, i
piccoli imprevisti


delle notti.
Non dico niente, ma


appoggiata
al davanzale, la guardo che esce


nel momento
in cui


i primi taxi
cominciano a muoversi appena


alle luci di
Chinatown, alimentati


da un
desiderio triste e umano. La guardo svanire


in fondo
alla via finché è solo uno sbaffo


viola nel
cerchio del mio fiato. Figura tanto minuta


che la
potrei tenere nella coppa delle mie mani.