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Pazienza Andrea, 60 anni a maggio

di
Checchino
Antonini, 26 Maggio 2016.

Non
fosse stato il noto collasso, il 23 maggio Andrea Pazienza
avrebbe compiuto 60 anni e, nelle sere etiliche qualcuno immagina
cosa ne sarebbe stato di lui: pittore, tassista, rockstar…


«Da
quando non ci sei – vado a memoria – Bologna non c’è più / se
l’hanno presa loro / è un cumulo di noia / che spendi e paghi
caro. Non ti sei perso niente, Paz. Vuoi mettere risorgere?» 
Era
il 16 giugno di 28 anni: «Noto fumettista stroncato da un collasso».
E una generazione prese a piangere come se non ne avesse avuto
abbastanza tra rockstar uccise dalla sregolatezza, compagni ammazzati
dalla repressione, dalle carceri speciali o dai fascisti, fratelli
stroncati dalle pere, compagni di strada morti dentro, lentamente, di
riflusso.



Pazienza Andrea, classe 1956,
sperimentò tutto questo, o gli passò vicino, eccetto l’ultima
variante per la quale gli mancò la voglia e certo il tempo. «Mi
manchi, mi manco», scriverà Daniela Amenta, voce indimenticabile
(nel senso che ora è lontana dai microfoni) della migliore
radiofonia, avvezza a scrivere di rock. E dunque di rockstar. Perché
Pazienza, si sosterrà di seguito, è soprattutto questo: la colonna
sonora migliore dei nostri anni peggiori. Proprio come cantano i Gang
citati nel leed. Di lui e dei suoi personaggi non si potrà mai dire
quello che si può sostenere di Corto Maltese: quello un personaggio
cui si delega la voglia di un’avventura che altrimenti non ci si
potrebbe permettere; Paz e i suoi – personaggi, pennarelli,
scarabocchi, sturiellet – sono l’impasto di autobiografia,
visioni e fiction di cui è fatta la nostra vita.



Precursore della graphic novel, Paz
l’anticipa e la smonta come smonta la gabbia della pagina
inventando linguaggi creoli mentre legge i muri del settantasette e
ne sente i rumori dalla Radio, quella radio, Alice, terrorizzato
dalla paura di restarne tagliato fuori. 

L’invito a sovvertire gli
stili di vita imposti resterà costituente del suo ritmo – parola
che gli piaceva assai – fin da quando iniziò a dipingere. 

Perché
la rockstar nacque pittore, e pittore sarebbe tornato – stando a
quello che immagina chi l’ha conosciuto bene e l’ha amato e
continua a farlo. Prima di fare fumetti dipingeva quadri di denuncia
ma se li compravano i farmacisti per mettrseli in camera da letto. Da
qui il desiderio di fumettare imparando nella fucina di rottura dei
linguaggi che fu il Dams. Mettendo in gioco il suo corpo «teatro di
operazioni per l’artista – soleva dire – un modello sempre a
portata di mano e a buon mercato. Quando disegno un corpo, io disegno
o il mio antenato Arcadio Paz, o un corpo degradato, o migliorato,
flamenchizzato, o insensualito, ma sempre il mio corpo».



Ossessionato dall’idea del doppio di
sé – altro non sono Penthotal, Zanardi, Pompeo – mescolò
Paperino all’underground americano e alla sapienza ereditata dal
suo primo maestro, lo cantò come il miglior acquarellista, era suo
padre. Narrazione e profezia, tavole e tele raffinate e migliaia di
foglietti sparsi in tutta Italia. 

Di lui si parla nelle serate tra
amici, c’è sempre chi ha conosciuto lui e chi giura di aver
conosciuto Zanardi. In questo senso è un classico, perché non se ne
può prescindere. E non è, né sarà mai un classico perché resta
inafferrabile, clandestino, deformabile come la memoria. 

Un’occhio
da storico ne vedrà la capacità di cantare la «b-side dell’Italia
potenza craxiana», come disse Enrico Brizzi, fresco di Jack
Frusciante che dedicò a Paz e a Pier Vittorio Tondelli che, a sua
volta, nel Week end post moderno , ebbe a dire che Andrea fosse il
James Joyce del fumetto italiano. Certo è grazie a Paz se oggi non è
tutto un manga-manga, se il suo segno riaffiora tra i fumettisti
resistenti (e promettenti) su riviste che appaiono e scompaiono.
Dieci anni dopo, il suo Zanna campeggiava sul palco di S.Giovanni nel
logo del concertone. Ne sarebbe stato contento l’autore? 

A
Conegliano, provincia di Treviso, c’è una scuola elementare che
porta il suo nome. Lo stesso a San Severo, Foggia, dove egli ha
vissuto. Pazienza come Garibaldi, Pertini e Mazzini: nome di scuola
materna a Vittorio Veneto, di anfiteatro a Spilamberto, provincia di
Modena. Pazienza faccia da francobollo (Poste italiane ’97), faccia
da busto a Fusignano (Ravenna), nome di centro del fumetto a Cremona,
nome di una via in un quartiere sperduto della Capitale.



Nessuna meraviglia che Step, il
protagonista di Tre metri sopra il cielo si introduca nottetempo nei
locali di una casa editrice per rubare alcune tavole originali
dell’autore. 

Nel numero 200 di Dylan Dog appare Virgil, figlio
dell’ispettore Bloch e porta lo stesso naso di Zanardi. A pagina 68
della stessa storia, una comparsa ha proprio le fattezze di Pazienza.
E un ritratto di Pazienza è il logo della SchwarzRot8000, squadra di
football nella liga alternativa di Zurigo. Ti citeranno, ti citeremo
ancora, Paz, come hai citato le nostre vite metropolitane e/o
provinciali, come le hai inventate. 


Non fosse successo il noto collasso,
il 23 maggio avrebbe compiuto 60 anni e, nelle sere etiliche qualcuno
immagina cosa ne sarebbe stato di lui. C’è stato chi ha
ipotizzato, ricamandoci su (con bel libro edito da Bevivino nel 2004,
“Massimo Zanardi. Che non mi si chiami Fido, quindi” e scritto
dal milanese Tomaso Pessina) che Zanna – oggi quarantaseienne –
sarebbe diventato un tassista (che comunque arrotonda smazzando un
po’ di roba) in una Bologna che non riconosce più, dopo una
manciata di esami al Dams. Colasanti ha perso i suoi boccoli, si
rade, lavora in banca, spende soldi e gioca per ore ai videogiochi.
Petrilli, quello sfigato del gruppo, naso a pera, bassino, negli anni
Novanta è stato un po’ in comunità. Oggi è sposato e fa il
bidello nello stesso liceo. 



Ma i licei sono ancora pieni di
giovani futuri precari che forse inventeranno nuovi linguaggi del
desiderio riscoprendo, magari, gli stessi «torbidi legami col
movimento del ’77» che ammise Pazienza.





FONTE: Popoff Quotidiano