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Messico: violenza e narco-caos. Intervista con Anabel Hernández

di Elena
Ritondale
,
25 Maggio 2016.

Conosciuta in Italia
grazie alla pubblicazione di La
terra dei narcos
(Mondadori,
2014), Anabel Hernández è una delle giornaliste più impegnate
nelle indagini sui rapporti fra cartelli della droga e apparati dello
stato messicano. Vincitrice del Premio Nacional del Periodismo per
un’inchiesta chiamata Toallagate (2001), sull’uso di fondi
pubblici per spese private da parte dell’allora presidente Vicente
Fox, Anabel Hernández è forse la principale biografa del boss
Joaquín “El Chapo” Guzmán. Sulla relazione fra il cartello di
Sinaloa e gli ultimi governi messicani la giornalista è sempre stata
chiara: tutta la cosiddetta guerra al narco non sarebbe stata altro
che un modo per aiutare quel cartello a fare piazza pulita della
concorrenza.


Nel 2011 Hernández accusò in televisione il
Segretario Generale per la Pubblica Sicurezza di aver ordinato il suo
assassinio a membri corrotti della polizia, con queste parole: “Yo
quiero denunciar desde esta tribuna que el Secretario de Seguridad
Pública Federal, Genaro García Luna y su equipo siguen con la orden
dada de matarme”.
Attualmente vive a Berkeley con i suoi due
figli proprio per ragioni di sicurezza ma non rinuncia al lavoro di
inchiesta in Messico, dove viaggia regolarmente.
Anabel Hernández
è stata protagonista, insieme a Diego Enrique Osorno, di una serata
al teatro Massimo di Palermo dedicata alla mattanza dei giornalisti
in Messico e della ‘ndrangheta in Calabria, con la proiezione di Le
strade del narcotraffico tra Messico e Italia

di Attilio Bolzoni e Massimo Cappello.
Ne abbiamo approfittato
per chiederle un commento su alcuni aspetti di questi anni convulsi
in Messico.



Giovanni Falcone
diceva che “le mafie, come il denaro, non hanno confini”.
Sappiamo che è vero ma qual è oggi il rapporto tra i cartelli della
droga e il territorio? Ai cartelli è ancora utile che resistano
alcune frontiere?



Il traffico di droga è
una delle espressioni più selvagge del capitalismo, si tratta di
denaro, di fare affari. I consumatori sono ovunque e, come qualunque
impresa capitalista (i narcos) cercano nuovi clienti. Per questo,
anche se i consumatori più importanti sono negli Stati Uniti, per i
cartelli messicani il Sud America e l’Europa sono i mercati che
vogliono conquistare e che stanno conquistando poco a poco. Questo
non implica assolutamente che questi affari non abbiano bisogno di un
controllo territoriale, esattamente come avviene in molti altri
settori dell’economia capitalista. In Messico, per fare un esempio,
ci sono territori in cui si vende Coca Cola e non si vende Pepsi Cola
e altri in cui si vende Pepsi e non Coca Cola. Voglio dire che anche
il controllo territoriale è capitalista. I cartelli hanno bisogno
del controllo del territorio, soprattutto per il trasporto della
merce, ma anche per gestire attività parallele: l’estorsione, i
sequestri, la tratta delle donne e chiaramente il traffico dei
migranti. Questo controllo si estende anche in centro e sud America.
 
In un momento in
cui il Messico sta liberalizzando un settore come quello
dell’energia, legato all’estrazione del petrolio, quanto credi
che questa capacità dei cartelli della droga di presidiare il
territorio possa rivelarsi cruciale per quelle imprese che dovranno
investire in luoghi “caldi”? Detto diversamente: gli imprenditori
nazionali e stranieri dovranno scendere a patti con loro per poter
operare “in sicurezza?”


In questo momento
nessuno, in Messico, può garantire “ordine” o sicurezza, neppure
i cartelli della droga. Ognuno di loro controlla zone concrete ma
circoscritte e questo si nota, ad esempio, dal fatto che chi
trasporta merci per lunghe distanze debba pagare qualcosa a gruppi
diversi. Gli Zetas in alcune zone rubano petrolio e condotti e
un’impresa che voglia investire in un’area sotto il loro
controllo deve naturalmente farci i conti. Questo però non sarebbe
sufficiente; fare un accordo con gli Zetas, in una situazione
frammentata come quella del Messico di oggi e, anche, del suo mondo
criminale, non esclude assolutamente che gruppi rivali degli Zetas
attacchino un territorio da loro controllato per subentrarvi. Nessuno
può garantire stabilità al momento, per questo gli investimenti
stranieri sono tanto debilitati. L’atomizzazione del mondo della
droga è stata una conseguenza diretta della complicità di Vicente
Fox nella fuga del Chapo e poi della cosiddetta guerra al narco
voluta da Calderón. Dal 1970 fino al 2000 tutto il territorio
nazionale era spartito da cinque cartelli. Gli ultimi governi hanno
debilitato gli avversari del cartello di Sinaloa, di fatto
frantumandoli e moltiplicandoli. Ora esistono gruppi più piccoli e
meno stabili ma altrettanto aggressivi e molto ben armati, grazie
alla facilità con cui si possono reperire armi sul territorio
proprio grazie alla loro massiccia diffusione durante il periodo di
militarizzazione del paese. Oggi anche il gruppo più piccolo può
entrare in possesso di un lanciafiamme. La fortuna è che non tutti
sanno usarli.


 
Parlando della
“guerra”, un capitolo a parte meriterebbe il modo in cui è stata
spiegata ai messicani. Il lessico utilizzato è stato tutto volto
all’esaltazione del “nemico”, alla promozione di una diffusa
percezione di insicurezza che potesse alimentare la paura e
giustificare una reazione violenta da parte dello Stato.


Prima di tutto bisogna
dire che non è mai esistita una “guerra al narco”. Il Governo di
Calderón ha mandato l’esercito in certe parti del paese e non in
altre, perché i suoi interessi erano indirizzati a togliere di mezzo
alcuni gruppi, non a risolvere il problema. Intorno agli anni ‘70
in Messico esisteva una sorta di regolazione del traffico di droga
attraverso una corruzione diffusa, che includeva tutte le bande; così
si è andati avanti fino al 2000. Da quel momento in poi l’interesse
del Governo è coinciso con quello di un gruppo in particolare, che
si è deciso di appoggiare nella sua guerra agli altri. Questo ha
avuto i suoi effetti collaterali, ad esempio i governatori dei
singoli stati non sono mai stati così potenti, perché i gruppi
esclusi hanno trovato in loro delle sponde: il PRI in alcuni casi ha
appoggiato cartelli osteggiati dal governo nazionale.


Qual è stato in
generale il ruolo del PRI (Partito Rivoluzionario Istituzionale)? La
svolta del 2000 coincide di fatto con lo storico passaggio di
consegna da questo partito (al governo da 70 anni) al Pan di Vicente
Fox.


La verità è che la
transizione non c’è mai veramente stata. Se si controlla il
gabinetto di Vicente Fox si può vedere che esponenti priisti sono
sempre stati presenti. Gli stessi priisti che c’erano con Zedillo e
con Salinas sono rimasti cruciali anche durante i mandati di Vicente
Fox, di Calderón e di Enrique Peña Nieto; parlo soprattutto dei
luoghi in cui si controlla l’economia. Il PRI non ha mai lasciato i
posti di potere in cui si trovava. Nella Secretaría de hacienda o al
Banco de México ha continuato a essere presente.





Oltre alle parole
“morte”, “guerra”, “nemico”, nell’ultimo decennio se ne
è imposta una, con urgenza drammatica: “desaparecidos”. La
scomparsa di decine di migliaia di persone è uno strumento di
terrore ancora più efficace degli omicidi di massa?

 

A
partire dalla “guerra” di Felipe Calderón abbiamo avuto almeno
ventiseimila desaparecidos. Si tratta di un tema articolato. È
difficile differenziare quante persone siano state fatte sparire dai
cartelli e quante dal governo. In Messico è un argomento che non si
è studiato a sufficienza, che rimane ancora sospeso. Quando ci sono
casi come quello di Ayotzinapa, in cui si distingue più chiaramente
la responsabilità della polizia federale, sorge chiaramente la
domanda: “e allora gli altri?”. Ci stiamo rendendo conto che in
alcuni casi l’autore dei sequestri è stato l’esercito, perché
ce lo hanno detto i giornalisti con le loro ricerche. Ma nei casi –
troppi – su cui non ci sono state indagini è difficilissimo capire
se la responsabilità sia stata dell’esercito, dei narcos o della
collaborazione fra i due. È complesso definire chi stia usando
questo strumento del terrore. Mi pare comunque che il Governo non
abbia voluto analizzare attentamente la lista dei desaparecidos e che
continui a non farlo, anche se si tratterebbe di una cosa elementare,
perché nella lista compaiono i nomi, le età, l’ora in cui sono
stati prelevati, il sesso, il quartiere, la città. È incredibile
che il Governo, dopo tanti anni, non abbia fatto un’analisi di
tutte queste informazioni, anche a un livello molto semplice, per
dire “in Messico il posto in cui spariscono più persone è questo,
normalmente succede in questo modo e per queste cause”. Perché non
lo fa?



Foto di Antonio Cruz


FONTE: Carmillaonline