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La questione della guerra in Libia

di
Michele Chiaruzzi,
Treccani, 04 Maggio 2016.



La
questione della guerra in Libia ci ricorda che la guerra
è la caratteristica centrale delle relazioni internazionali, anche
se molti talvolta tendono a dimenticarlo o trascurarlo. 

Se questa
affermazione sembra troppo forte, allora si può dire che la guerra è
il momento estremo delle relazioni internazionali, così come la
rivoluzione lo è della politica interna. Rivoluzione e guerra hanno
prodotto in Libia
lo scontro violento che si combatte da ormai cinque anni. 

La sua
origine più prossima è nota: l’opposizione armata libica,
sostenuta dall’allineamento di guerra delle potenze occidentali, ha
abbattuto il regime politico retto da Gheddafi
e, di conseguenza, la struttura di governo dello Stato. 

Da allora
esso non può svolgere neppure la funzione fondamentale di qualsiasi
Stato, proteggere la sicurezza dei cittadini nel proprio territorio.



Questi fatti portano a due
considerazioni che riguardano il cittadino impegnato nella
comprensione della politica estera italiana e nelle delicate
decisioni alle quali è chiamata. 

La prima è di carattere
generale: ci sono diverse scelte possibili a chi ritiene propria
responsabilità o interesse intervenire nella guerra libica, ma tutte
implicano la minaccia o l’uso della forza. 

Così è in guerra,
laddove si perseguono fini politici minacciando la morte – o
dandola – a chi si oppone alla propria volontà. Per uscire da
questa miserabile condizione occorre trovare un compromesso politico
tra le parti. 

Ciò implica una consapevolezza essenziale: qualsiasi
compromesso, anche se ripudia la violenza aperta, anche se
liberamente accettato, ha essenzialmente carattere coattivo. 

È
difatti pur sempre un prodotto compreso nella logica della forza. 

Lo
è perché l’aspirazione che porta al compromesso non è motivata
da sé medesima, ma dall’esterno, e cioè dall’aspirazione
opposta. 

Da qui il sentimento fondamentale d’ogni compromesso
raggiunto:“sarebbe meglio altrimenti”. In guerra, qualsiasi
guerra, questo carattere coattivo è all’estremo perché riguarda
direttamente e chiaramente la minaccia e l’uso della forza. La
Libia non fa eccezione.



Se è così, la pace di Libia si
reggerà, prima di tutto, sulla dissuasione nel senso
politico-diplomatico: indurre il nemico a desistere dal proposito di
combattere, trasformandolo, anche con la minaccia della forza, almeno
in oppositore e da lì, chissà, in amico. 

A quel punto potrà essere
con il persuadere, non con il minacciare, il legame primo del
dissuadere. La comune particella è appunto “suadere”: indurre
con efficaci parole. 

Indurre a cosa? 
A trattenere quella violenza
sociologicamente specifica esercitata in guerra. Raggiunto quel
punto, la diplomazia potrà non solo affiancare bensì sostituire la
violenza della guerra. 

Si sostituirà all’abbattimento violento la
ragione discorsiva, base della mutua coesistenza e freno prudenziale
al conflitto sempre latente. 

È giocoforza questo il percorso
d’uscita dalla guerra di Libia.


Questo percorso è occluso, però, da
una causa esterna che porta alla seconda considerazione. 

Essa
riguarda direttamente le relazioni internazionali e, per quanto
concerne il quadrante europeo, il conflitto sulle sfere d’influenza
tra Francia, Regno Unito e Italia. 

La ragione principale della guerra
anglo-francese contro la Libia nel 2011 è la stessa che guida ancora
oggi la politica di queste due potenze come altre potenze esterne:
estendere la propria sfera d’influenza in Libia. È questo un
problema fondamentale per ottenere una pace stabile: giungere a un
compromesso politico tra le potenze europee sulle sfere d’influenza
senza produrre la partizione del Paese. 

Le sfere d’influenza sono
regole operative fondamentali per sostenere l’ordine internazionale
e la loro delimitazione, pur complessa, è essenziale. 

In Libia
sembra mancare l’accordo sia sui mezzi per darne definizione
condivisa sia, di conseguenza, sulle finalità che sorreggono il
tentativo di realizzare la pace.



In effetti, l’esistenza del problema
delle sfere d’influenza non stabilisce che le classi dirigenti ne
siano consapevoli. 

Al contrario, essendo regole politiche non formali
è difficile valutare quale sia il loro contenuto soprattutto quando
le potenze non percepiscono interessi comuni superiori a quelli
particolari. Sia come sia, Regno Unito e Francia non sembrano
disposti a rinunciare all’affermazione dei propri interessi nella
definizione di queste regole e ad essa subordinano la pace. 

Hanno già
dimostrato con la guerra del 2011 di considerare la propria vittoria,
quale essa sia, come la finalità immediata del combattimento e la
pace come quella ultima. 

Questo fatto non è una novità e non è per
nulla peculiare. Agostino d’Ippona l’aveva già notato nel De
Civitate Dei
(XIX, 12-13). Chi turba la pace “non vuole che non
vi sia pace, ma che sia quale lui la vuole”. Chiarire questa
volontà sarebbe un esercizio utile al tentativo di una pace
duratura.





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