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La Mongolia, sempre più povera e lontana?

di Piotr,
farfalleetrincee, 06 Maggio 2016.
Statua di Gengis Khan.
Foto
di Ludovic Hirlimann

Pochi paesi
hanno il
potere evocativo
della Mongolia, chi l’ha visitata sa come questo paese sia
caratterizzato da orizzonti infiniti, apparentemente senza fine. 

In
Mongolia si può davvero ascoltare il vento e toccare con mano la
natura in tutta la sua potenza, ma la Mongolia non è solo
una
cartolina
o un video da
mostrare agli amici, la Mongolia è anche un paese difficile, dove la
parte di popolazione ancora nomade conduce una vita estenuante, 
mentre nella capitale – di fatto
l’unica
vera città
del paese –
vive una classe media occidentale. Ma la Mongolia è anche un paese
che rischia la crisi.

L’economia mongola si basa
sopratutto sull’
estrazione
di minerali
, che
rappresentano il 94% delle sue esportazioni. Nel paese si trova
inoltre la miniera di rame di Oyu Tolgoi, tra le più grandi del
mondo. Nel 2011 la il tasso di crescita economica della Mongolia era

tra quelli più alti
a
livello globale, oggi ha recentemente firmato un prestito  di
250milioni di dollari dalla banca elvetica Credit Suisse. 

Il crollo
del prezzo del rame, unito alla qualità dello stesso scopertasi non
così alta come prospettata ed una
moneta
troppo forte
, hanno
infatti fatto precipitare il volume del minerale esportato.



Altro elemento chiave della crisi
dell’
economia mongola,
che tuttavia mostra ancora qualche segnale di crescita, è la
dipendenza dal mercato cinese dove si dirige il 90% delle
esportazioni. La posizione geografica della Mongolia non aiuta,
trovare
nuove rotte
commerciali
non è
compito facile, si potrebbe dire che questa sia l’altra faccia del
mito che circonda la remota Mongolia. 

Il rallentamento economico
cinese, senza dimenticare la crisi russa, significa inoltre un calo
anche nel
settore del
turismo
, altra grande
risorsa del paese. La grande sfida nel futuro della Mongolia si
chiama diversificazione.


La situazione poco felice si riflette
anche a
livello sociale,
con l’aumentare delle tensioni e delle proteste. Negli scorsi anni
moltissimi nomadi, attratti dal boom economico, hanno venduto i loro
animali per trasferirsi in città, ossia nella capitale,
spesso
indebitandosi
per
iniziare la loro nuova vita. 

Oggi queste persone hanno di fatto perso
tutto, ammassandosi nei quartieri di
gher
di Ulaanbaatar dove ormai vive più di metà della popolazione della
città e dove le infrastutture sono
estremamente
carenti

Gran parte di
loro rischiano oggi di essere trascinati sotto la soglia della
povertà.



A protestare sono anche i gruppi
ambientalisti
e le
opposizioni politiche. Il governo si è dimostrato incapace di
gestire al meglio la cessione della miniera di Oyu Tolgoi al gruppo
anglo-australiano Rio Tinto, rallentando le trattative per le
continue richieste di denaro e
fallendo
nella redistribuzione
, in
servizi alla popolazione, di quanto incassato. Come se non bastasse,
diversi ecologisti lamentano come si stia cercando di rendere la
Mongolia un luogo attraente per gli
investimenti
nel settore
delle scorie
nucleari. Una situazione critica ma non ancora del tutto compromessa,
certo non semplice.



Oggi il grande pericolo si chiama
debito verso l’estero,
ma fa paura anche la mancanza di investimenti. I grandi marchi
stranieri del settore alberghiero arrivati negli anni del boom, hanno
oggi chiuso le porte dei loro alberghi; i
numerosi
appartamenti
figli
dell’edilizia che ha cambiato il volto della capitale sono oggi
vuoti, nonostante i prezzi siano crollati. In novembre Erdene
Sambuunyam, leader sindacale dei minatori della compagnia statale
Erdenes Tavan Tolgoi
si è
dato fuoco per protesta

Su tutto questo si alza nella steppa l’enorme statua di Gengis
Khan, simbolo di anni d’oro ormai passati.



Come già detto la situazione non è
ancora al suo
punto di non
ritorno
, ma servirà
intelligenza per affrontare problematiche che da economiche stanno
diventando sociali. La Mongolia è
un
paese meraviglioso
, ma la
luce porta con sé l’ombra.
Ora possiamo tornare ad ammirare i paesaggi mongoli.