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“La festa negata” e la silenziosa tragedia degli yazidi

di
Nicolamaria Coppola,
18
Maggio 2016.

Reportage dal
Tempio di Lalish durante lo Jazhna Jamaye, la festività più
importante degli Yazidi. Un documentario che offre uno sguardo nel
profondo di questa antica e martoriata minoranza.





Il mondo sembra essersi
accorto degli yazidi solo in seguito all’arrivo dei miliziani
jihadisti di Daesh a Mosul e nella provincia di Niniveh. È stato in
quell’occasione che si sono visti uomini, donne e bambini costretti
a fuggire dalle loro case e rifugiarsi sul monte Sinjar mentre le
truppe dell’ISIS entravano nella omonima città e la annettevano al
loro neonato Califfato.


Le tragiche storie delle
donne yazide, rapite, vendute come schiave e stuprate dagli uomini
del Califfato, poi, hanno fatto inorridire tutti noi, e Vian Dakhil,
la donna yazida membro del Parlamento iracheno, ha commosso il mondo
con il suo appello disperato lanciato tra le lacrime all’inizio di
agosto 2014: “Salvateci!”.


Noi di Epos,
però, conosciamo la comunità yazida da molto prima che questa
diventasse tristemente nota a causa dell’Isis. Siamo presenti nel
Kurdistan Iracheno dal 2012 con un progetto finanziato dal Ministero
degli Affari Esteri della Cooperazione Italiana per i rifugiati
siriani che si chiama “My Future”, e nell’ottobre 2013, in
tempi non sospetti, la prof.ssa Emanuela Del Re, Presidente di
Epos,
ha filmato un documentario sulla più importante festa yazida, Jazhna
Jamaye (anche traslitterata come Cejna Cemaiya, Festa
dell’Assemblea), che si svolge nel tempio di Lalish.



In
quell’anno la festa fu cancellata per non meglio specificati
“motivi di sicurezza”, e la cosa non ci lasciò indifferenti
perché ci interrogammo su cosa avrebbe potuto significare per noi
cristiani cancellare il Natale o la Pasqua per quegli stessi motivi
di sicurezza. In effetti, a Erbil, capitale del Kurdistan Iracheno,
in settembre vi era stato un attentato che aveva fatto alzare molto
il livello di guardia. 

Le autorità del Kurdistan avevano creduto
bene di evitare un assembramento come quello della festa yazida, e
avevano, dunque, imposto di non celebrare la festa.

Imponenti le misure di
sicurezza al tempio, con controlli serrati. Invitata dagli amici
yazidi a partecipare alla festa nel tempio con l’intenzione di
filmarla, seppur delusa dalla cancellazione la prof.ssa Del Re decise
ugualmente di filmare l’atmosfera creata dalla festa “negata”. 
Dormendo all’aperto sulle colline che circondano i templi,
ascoltando canti epici e religiosi e parlando fino a tarda notte con
la famiglia che ci ospitava e altri amici yazidi, la tensione si
avvertiva, perché ci veniva intimato di non avventurarci tra i
boschi pattugliati da soldati armati a cui era stato ordinato di
sparare a vista. 
Però nel tempio si celebravano i riti lo stesso.


Battesimi e rituali al
tramonto con l’accensione del fuoco in mille nicchie e canti
suggestivi emanavano una spiritualità misteriosa tutto intorno. Ma
dei ventimila attesi solo una piccola parte era presente, e i giovani
ci parlavano della loro posizione difficile nella società irachena,
e del pericolo costante di essere oggetto di attacchi, pur
riconoscendo l’alto grado di serenità raggiunta nel Kurdistan
grazie alle politiche di rispetto delle minoranze fortemente volute
dal Presidente Barzani.


I più anziani,
rappresentanti religiosi e laici, parlavano con cautela, e tutti i
ragazzi intervistati si dicevano felici di prendere parte ad una
festa così importante ma altresì preoccupati ed incerti sul loro
futuro data l’instabilità della regione. Già nell’ottobre 2013,
dunque, c’erano i primi segnali di pericolo per gli yazidi, le
prime avvisaglie di una tragedia che si sarebbe abbattuta sulla
comunità dieci mesi dopo.



Le notizie che ancora oggi giungono
dall’Iraq sono confuse e non sempre confermate, e quanti yazidi
siano stati uccisi dall’inizio della crisi nessuno è in grado
dirlo. 

Paradossali restano tuttora le descrizioni approssimative che
la stampa ne ha fatto senza rendersi conto dell’enorme rischio a
cui le affermazioni sbagliate li espongono. 

Non a caso gli yazidi
sono estremamente cauti nell’aprirsi all’esterno, perché troppo
spesso il loro credo è stato rappresentato come una forma “rozza”
di religione, e quindi poco apprezzabile da cristiani, ebrei,
musulmani.



Secondo la tradizione yazida, Melek
Tā’ūs, un angelo dalle sembianze di un pavone, dopo aver
rinnegato Dio ed essersi allontanato da lui, si pentì. 

Dopo aver
riempito alcune giare con le sue lacrime, se ne servì per estinguere
le sbarre di fuoco della prigione nella quale era stato confinato. 

L’angelo venne dunque perdonato da Dio, e da allora ha ripreso il
suo posto di custode del mondo e dell’umanità. 

Pur essendovi
diverse interpretazioni, si può dire, in sintesi, che secondo
l’Islam radicale tale angelo Pavone nel Corano viene accomunato a
Shaytan, Satana, e da questo deriva l’accusa agli yazidi di adorare
il diavolo. 

Prima dell’ISIS, già Al-Qaeda in Iraq li aveva
tacciati come infedeli, condannandoli a uccisioni indiscriminate.



Pur restando un credo non abramitico,
lo Yazidismo si colloca alle radici delle culture indoeuropee ed è
presente in Medio Oriente e in Asia da millenni. 

Religione fortemente
sincretica, in essa confluiscono elementi dei credi pre-islamici, del
Misticismo islamico, del Mitraismo, del Manicheismo, del Giudaismo
cabalistico, del Cristianesimo e dello Zoroastrismo. 

Presenta
elementi come la circoncisione, il battesimo con acqua, la credenza
nella metempsicosi che proseguirà fino al giorno del Giudizio
Universale in cui tutti saranno accolti in paradiso. L’adorazione
del fuoco è legata allo zoroastrismo, a sua volta culto intrecciato
con le culture dell’Asia da secoli. 

Le sacre scritture degli Yazidi
sono “Il Libro della Rivelazione” e “Il Libro Nero”, ma essi
hanno trasmesso il loro credo oralmente, di generazione in
generazione, riuscendo così a preservare la loro fede nei secoli
nonostante le persecuzioni.



La popolazione Yazida è stata
decimata nel corso dei secoli attraverso conversioni forzate
all’Islam e uccisioni sommarie, e quella perpetrata a partire
dall’agosto 2014 dai miliziani di Daesh è considerata la
settantaquattresima persecuzione di cui è stata vittima la comunità.

Fonte: Frontierenews