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Khaled Khalifa: “Resto in Siria, la scrittura non ha bisogno di un luogo comodo”

di Sana Darghmouni, frontierenews, 02 Maggio 2016.


Abbiamo incontrato il prolifico autore
siriano contemporaneo (Elogio dell’odio), voce viva della rivoluzione
siriana, in occasione della tappa milanese del suo tour italiano. Ci
ha spiegato perché ha deciso di rimanere in Siria nonostante la
guerra e la violenza perpetuata su di lui dal regime di Assad.






Si può senza dubbio affermare che
Khaled Khalifa è un testimone unico, data la difficoltà di trovare
un interlocutore dall’interno siriano. La sua sfida come scrittore
è quella di raccontare il dolore, ma la sua tecnica è quella di
scrivere il dolore staccandosene. L’incontro milanese si è svolto
con domande e risposte, e riporto qua sia le domande che lo scrittore
ha ricevuto sia le sue risposte.


Qual è il ruolo di uno scrittore
siriano oggi in Siria alla luce degli eventi che il paese sta
attraversando?



Innanzitutto stare in Siria per me è
stata una scelta; ho avuto parecchie occasioni per lasciare il paese,
ma non l’ho fatto. In realtà il problema di lasciare il paese si
poneva già prima, quando ero ancora all’università. Posso
affermare che la cosa di cui non mi pento è quella di non aver
lasciato la Siria. Possiedo solo la scrittura, e amo questo
passaporto oggi umiliato. Dopo le ultime tragedie, sento ancora il
mio legame forte con la Siria. La scrittura non ha bisogno di un
luogo comodo; voglio vivere e morire in Siria.




Gli arabi sono “adatti” alla
democrazia? Quello che sta accadendo oggi in Siria è una
rivoluzione?



Sin dagli inizi della Primavera araba
c’erano tante domande che si ponevano; una delle più importanti
era: cosa avrebbe pensato l’Europa di questo? C’erano accese
discussioni all’interno del mondo arabo. Io personalmente ho
lavorato per tutte le rivoluzioni arabe. Ho sempre sentito dire che
non è possibile mischiare Islam e democrazia, arabi e democrazia,
come se gli arabi fossero fuori dalla storia. Ma questo non è vero!
Gli arabi, come tutti, hanno diritto di discutere e far sentire le
loro voci.



La rivoluzione siriana è il cuore
delle rivoluzioni arabe. Il popolo siriano non avrebbe accettato 50
anni di umiliazione. Il mondo si pentirà per aver lasciato i
siriani soli per cinque anni. Ci sono già segnali che questa
rivoluzione siriana ha messo in crisi gli stessi valori europei.


Daesh è stata creata per distruggere
la rivoluzione siriana, come lo era Al Qaeda. Oggi l’attenzione si
è spostata sull’Isis ma una volta era su Al Qaeda; sono le stesse
dinamiche che si riproducono. Bisogna chiedersi dunque: chi ha
fondato l’isis? Chi lo finanzia? Chi lo sostiene? E soprattutto chi
sono?



C’è un legame tra il
fondamentalismo e il regime siriano? È il regime che ha creato
quindi il fondamentalismo distruggendo i legami comunitari?



Negli anni ’50, dopo l’indipendenza
dai francesi, la Siria ha avuto un’esperienza democratica. 

I
cristiani costituivano il 20% della sua popolazione. L’ambizione
era quella di costruire una società laica, quindi è impossibile per
la Siria produrre il fondamentalismo. Io ad esempio mi sento più
vicino ad un siriano cristiano che ad un saudita.


Quindi chi sono oggi i siriani? E
qual è la loro identità?



La domanda più importante nella
Primavera Araba è appunto quella sull’identità. Il regime
sceglieva l’identità stessa dei siriani; ciò che ha fatto il
partito ba’th ha distrutto la Siria e provocherà danni di cui gli
effetti dureranno per altri 500 anni.


Oggigiorno ogni siriano sceglie la sua
identità, quindi conoscere se stessi è il primo passo. Questa
identità può convivere e discutere con altre, ma non può essere
scelta da altri. La cosa più importante scaturita da questa
rivoluzione è l’identità.


Oggi si guarda ai siriani come a delle
sette, ma questo è un errore. Queste divisioni di oggi sono
temporanee. I siriani non hanno combattuto per creare uno stato
teocratico, la Siria vuol rimanere quella che è.



Dopo la questione identità si
intravede forse il pericolo di un secondo Sykes-Picot?



Nessuno ha il potere di decisione
oggi, né il regime né l’opposizione. La divisione della Siria non
è un progetto che si può imporre. La divisione della Siria
significherebbe dividere tutta l’area vicina.



Come riescono i siriani a discutere
e parlare, oggi, tra di loro?



I siriani hanno trovato piccoli modi
semplici per esprimere le loro speranze; guardano ad esempio il muro
di Berlino e dicono che costruiranno il loro paese. Io credo nei
siriani e vivo da 5 anni quotidianamente in mezzo a loro e ho
veramente fiducia nella loro determinazione. Aleppo ha visto 4
terremoti ed è sempre risorta. Non ci permettiamo il lusso di
perdere la speranza!