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Il Mali che accoglie i siriani ha qualcosa da insegnare all’Europa

di Andrea de Georgio, Internazionale, 05 Maggio, 2016.  


Profughi siriani a Bamako


Cosa ci fanno dei curdi siriani di
Kobane a Bamako, capitale del Mali, in Africa occidentale? Non è uno
scioglilingua ma la realtà quotidiana di famiglie di profughi che
ingrossano le statistiche della diaspora siriana nel mondo. 

 


Dietro alle storie di questi esuli e
dei percorsi che li hanno portati fino nel Sahel si cela l’ennesima
assurda piega del viaggio a cui sono costretti milioni di persone in
fuga da guerre per accedere alla protezione internazionale. 

Dalla
Siria ne sono scappati quasi cinque milioni durante questi anni,
sparpagliando famiglie e destini ai quattro angoli del Mediterraneo:
2,7 milioni sono in Turchia, 2,1 milioni tra Egitto, Iraq, Giordania
e Libano, 28mila in Nordafrica (dati
dell’Agenza delle Nazioni Unite per i rifugiati, Unhcr
). 

Un
piccolo gruppo è arrivato fino in Mali, a migliaia di chilometri dal
Medio Oriente, ritrovandosi ancora più lontano dal sogno di un
riparo sicuro in Europa.




Quartiere di Faladié Sema, periferia
sud di Bamako.



L’appuntamento, preso al telefono in
un misto di arabo, curdo, francese e inglese, è davanti a un hotel. Si presentano tre ragazzini dai lineamenti orientali e la carnagione
olivastra. 

Non fanno domande, comprano sacchetti d’acqua fresca a
una boutique, salutano il venditore in perfetto bambara (la lingua
del Mali) e fanno cenno di seguirli.




Saltellando su stradine di terra rossa
ci guidano fino a una costruzione a due piani che dall’esterno
sembra uguale alle altre. Appena varcato il cancello, salendo le
scale che portano al ballatoio al primo piano, invece, s’incontra
un’umanità decisamente diversa da quella che popola il quartiere
attorno. Uno sciame di bambini di tutte le età riempie lo spazio
circostante, accompagnato dal vociare affettuoso di alcune donne
corpulente e di una tata africana.




I cerimoniali di benvenuto si
consumano nel salotto occupato da divani di pelle, un tavolino di
vetro, stuoie e tappeti ai piedi dei sofà. I posti più comodi sono
per i capofamiglia, gli ospiti e i figli più grandi. Per terra,
invece, siedono a gambe incrociate donne e bambini. 

“Qui viviamo in
affitto, siamo tre famiglie. Siamo tutti curdi di Kobane”. 

Ala
Addin è il portavoce di 36 anni della comunità di curdi siriani del
Mali. 

“Sono qui da più di dieci anni ormai, avevo una piccola
azienda di pozzi. Dallo scoppio della guerra in Siria ho dovuto far
venire a Bamako tutta la famiglia”.


Da quando il sedicente gruppo Stato
islamico ha occupato Kobane la storia di questo padre di sei figli
(l’ultima, nata qui, si chiama Mali) e il suo rapporto con l’Africa
si sono intrecciati con il destino della propria comunità. 

“La
gente vende tutto quello che ha per scappare. Le nostre donne avevano
gioielli d’oro di famiglia. Abbiamo venduto tutto per comprare la
salvezza. E ora siamo bloccati qui, dove vivere è difficile, fa
caldo, ci sono le malattie, tutto è caro e diverso e non riusciamo
più ad andare avanti”.




Accoglienza nonostante la
guerra






I suoi tre telefoni non smettono di
squillare: quando non è una famiglia bloccata nel deserto è la
polizia maliana che chiede garanzie per un curdo fermato su un
autobus. Nonostante le giornate scandite dai tè, il narghilé gusto
menta e le sigarette rollate con cartine Papier de Damas, l’esilio
resta amaro. Non basta il pane fatto in casa ogni giorno dalle donne,
non basta vedere la bandiera curda affissa alla finestra illuminarsi
al sole. 
“Non c’è lavoro a Bamako. Per questo molti siriani
cercano di rimettersi in viaggio verso l’Europa e s’indebitano
per ripartire”.




Dato che, come Ala Addin, la maggior
parte dei siriani che arriva in Mali preferisce non chiedere asilo, è
difficile conoscere esattamente i numeri dell’afflusso. Guernas
Guy-Rufin, responsabile della protezione dell’Unhcr in Mali,
descrive così il fenomeno: “Oggi abbiamo 82 rifugiati siriani
riconosciuti e dieci richiedenti asilo. Alcuni vengono in Mali
espressamente per chiedere protezione mentre altri sono in transito
verso l’Algeria e altri paesi. Tra la Mauritania e la Siria
esisteva un accordo di libera circolazione (sospeso alla fine 2015).
Grazie a questo i siriani sono arrivati dalla Turchia o dal Libano in
aereo in Mauritania e poi sono venuti in Mali, paese che nonostante
la guerra continua ad accogliere i rifugiati e i richiedenti asilo”.



Una
giovane maliana al servizio della famiglia Saddik prepara il tè, il
25 marzo 2016. (Luca Salvatore Pistone)



Secondo l’esperto dell’Unhcr la
scelta di questa meta è logica quanto complicata: “Quasi tutti i
siriani che sono arrivati in Mali e hanno chiesto asilo l’hanno
ottenuto, per questo continuano ad arrivare. Oltre al fatto che qui
c’è una piccola comunità di commercianti siriani installata già
prima della guerra in Siria. Il problema è che oggi dipendono
interamente dall’assistenza umanitaria, non riuscendo più a
trovare un impiego”.



In Mali la legge sull’asilo non
comporta, come altrove, l’interdizione al lavoro. 

Sulla carta ai
profughi sono riconosciuti anche gli stessi diritti di accesso alla
salute e all’educazione dei cittadini maliani. 

Ma la crisi
socioeconomica che dopo la guerra del 2013 ha investito il
paese, uno dei più poveri al mondo, non può certo offrire
condizioni ottimali d’accoglienza.



Prima la Mauritania, ora il Mali. 
Da
quando è chiusa la via balcanica, per i siriani queste mete esotiche
e sconosciute sono diventate un passaggio sicuro verso l’Europa.




Molti di loro da qui continuano il
viaggio attraverso Algeria, Marocco o Libia cercando di mischiarsi al
flusso dei migranti economici subsahariani. Ai siriani, le reti
saheliane di trafficanti chiedono dai cinquecento ai mille euro a
testa per raggiungere Tamanrasset, nel sud dell’Algeria, da Gao,
nel nord del Mali.




La Siria oggi confina con il
Mali




In precedenza molti profughi
prendevano l’aereo direttamente per Algeri, ma da aprile del 2015
anche l’Algeria ha imposto restrizioni ai visti per i siriani,
costringendoli a entrare illegalmente da sud, dal deserto maliano. 

Dopo il passaggio al confine di In Khalil di almeno un migliaio di
siriani tra la fine del 2015 e l’inizio di quest’anno, Algeri ha
rinforzato i controlli alla frontiera con il Mali (ufficialmente
chiusa per il conflitto) e oggi respinge i profughi costringendoli a
tornare a Bamako, oltre 1.300 chilometri più a sud.




Ai primi arrivi la popolazione ha
reagito con diffidenza. Avevamo paura che fossero venuti per
raggiungere i gruppi jihadisti nel nord. Ma finora nessun siriano è
mai stato incolpato di un crimine dalla giustizia maliana. Questa
gente è qui in cerca d’aiuto e noi, per quanto possibile, li
aiutiamo”.


Yeya F. Maiga è il direttore
amministrativo della Commissione nazionale incaricata dei rifugiati
(la Cncr) che a Bamako, in collaborazione con l’Unhcr, esamina le
richieste d’asilo e rilascia gli status di protezione. 

“Al di là
delle convenzioni internazionali ratificate, delle leggi e dei
decreti attuativi, per il nostro popolo l’accoglienza è sacra.
Ci credereste se vi dicessi che oggi
il Mali oltre ai siriani accoglie profughi etiopi, eritrei, iracheni,
afghani, pachistani e srilanchesi? Forse nel nostro piccolo abbiamo
anche noi qualcosa da insegnare all’Europa”.



Nel salotto della casa dei siriani di
Faladié Sema una televisione al plasma appesa a una parete alterna
videoclip rap a serafici documentari sul Kurdistan. 

Durante il racconto dell’amico Ala
Addin, Usman Saddik era rimasto in silenzio ad annuire. 

È un anziano
contadino dalle mani callose di un villaggio poco lontano Kobane,
arrivato due anni fa in Mali. Parla solo curdo, si fa tradurre dai
figli.



Quando stava per arrivare Daesh
[il gruppo Stato islamico, ndr] ho svenduto tutta la terra. 

Ora non
sono più nulla. Cos’è un contadino senza terra? 

La nostra casa,
invece, è stata bombardata dagli americani perché era stata
occupata da quelli di Daesh. Non vorrei
andare in Europa, ma è l’unico modo per salvarci”.




Da Bamako Usman è riuscito a mandare
il primogenito in Germania, dove spera di raggiungerlo presto con il
resto della famiglia. Ma anche l’Europa, oggi tanto agognata,
sarebbe un palliativo. Nel cuore dell’esule brucia la nostalgia di
casa.




Non potremo mai dimenticare Kobane,
ritorneremo, anche se ci sarà solo la terra. Anche se hanno
distrutto tutto prima o poi torneremo e la ricostruiremo ancora più
bella”. 

Mentre nel salotto gli uomini sognano il ritorno e le donne
sperano in una nuova vita in Canada, nella stanza accanto una ragazza
della famiglia prende lezioni di francese da un universitario
maliano. Nella nuova geografia che estremismi, guerre e migrazioni
stanno ridisegnando sulle nostre mappe impolverate del mondo, la
Siria oggi confina con il Mali.