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Cosa spinge le persone a cambiare città e lavoro

di Duncan Geere, 24 Maggio 2016.

Al primo posto c’è l’assenza
di inquinamento. Al secondo, la sicurezza personale e livelli bassi o
assenti di criminalità. Al terzo, una società tollerante. E al
quarto, il costo dell’affitto”.




Sono queste le priorità delle persone
che vogliono trasferirsi in una nuova città, come spiega Sten
Tamkivi, imprenditore estone e fondatore di Teleport,
un servizio che aiuta a individuare la “città ideale per vivere e
lavorare”.



Molto spesso si pensa che il budget
sia la cosa più importante, ma i primi tre criteri non sono
economici”, spiega Tamkivi. “Riguardano aspetti generali della
vita, come sentirsi sicuri e accettati in un ambiente tollerante.
L’ultima cosa che vogliamo è andare a vivere in un posto dove
potrebbero aggredirci per il colore della pelle”.

 


Su Teleport, dopo una breve procedura
di iscrizione, un questionario ci aiuta a capire quale sia la città
più adatta alle nostre esigenze. È piuttosto dettagliato: si può
modificare in base alle preferenze su clima, istruzione, sicurezza,
lingua, mercato del lavoro, tasse, inquinamento, perfino il traffico.
Per di più, se specificate il vostro affitto mensile e lo stipendio,
il sito mostra il reddito disponibile in più che avrete in diverse
città in tutto il mondo. 

Teleport guadagna aiutandovi durante il
trasferimento e mette a disposizione contatti e servizi per
facilitare le cose.




La prima città nella mia classifica è
Singapore. Questo mi ha sorpreso perché, avendo indicato che mi
piace il clima di Stoccolma, mi aspettavo città ben più fredde tra
i primi risultati. Ma a quanto pare, i punteggi più alti di
Singapore per quanto riguarda accesso a internet, sicurezza e qualità
ambientale – criteri altrettanto importanti per me – hanno
prevalso sul clima umido.



Dopo Singapore ci sono Glasgow,
Edimburgo e Stoccolma, che mi hanno sorpreso di meno visto che vivo a
Göteborg, in Svezia.




Mi sono trasferito da Londra a
Göteborg circa tre anni e mezzo fa per un master. Non sono ancora
del tutto sicuro se mi sono trasferito per studiare, o se mi sono
iscritto al master per potermi trasferire. In ogni caso, Göteborg è
una città fantastica e la adoro – è abbastanza piccola per
muoversi facilmente con i mezzi pubblici, piena di parchi e spazi
verdi, comoda per raggiungere gran parte dell’Europa e, nonostante
le sue dimensioni ridotte, offre sempre qualcosa da fare. Vivere qui
è come una vacanza perpetua: è il posto perfetto per me.




Ma riconosco che avere la libertà di
decidere di vivere altrove è un privilegio enorme. Ho avuto i soldi,
il sostegno della famiglia, la flessibilità lavorativa e il
passaporto giusto
per poter lasciare Londra e trasferirmi a
Göteborg. Una giovane donna che vive in uno slum di Nairobi non ha
queste possibilità. La maggior parte delle persone non le ha, e
molte sono comunque costrette a trasferirsi.




Bianchi, maschi e benestanti




A pensarci bene, è difficile sfuggire
alla conclusione che il fenomeno dei “nomadi digitali” che si
spostano dall’occidente verso le città più economiche nelle
nazioni in via di sviluppo (e qui non sto certo pensando a Göteborg)
è essenzialmente solo una forma di gentrificazione
globale. Questi “lavoratori della conoscenza” fanno aumentare i
prezzi locali, scacciano i residenti dai quartieri diventati più
alla moda e interagiscono di rado con la cultura e la comunità
locale. Questa tendenza ha anche paralleli storici problematici con
il colonialismo, in particolare in Asia.




Anche se i lavoratori della conoscenza
di solito pagano più tasse degli altri residenti perché hanno
stipendi più alti, questo avvantaggia l’economia locale solo se i
lavoratori sono registrati come contribuenti e se la corruzione non è
diffusa. 

La presenza di “nomadi digitali” di solito è correlata
a una rete locale di startup, ma la ricchezza che generano spesso non
ricade sulle persone che ne hanno più bisogno.



Tamkivi ammette che molti utenti di
Teleport si somigliano: bianchi, maschi, provengono da ambienti
benestanti e lavorano nel settore della tecnologia. Ma riconosce
anche che questa fascia demografica non è sufficiente a sostenere la
sua azienda a lungo termine e sta lavorando per ampliare la base di
utenti.




Quella base aveva avuto una certa
espansione dopo gli attentati di Parigi del 13 novembre 2015, quando
l’azienda ha notato un picco di iscrizioni al sito, stimolato da
una certa copertura sui mezzi d’informazione francesi. “Ho visto
che i nuovi iscritti erano un gruppo completamente diverso”, spiega
Tamkivi. “C’è stata una quota significativa di utenti che come
professione indicavano ‘altra’. Da allora, abbiamo aggiunto venti
o trenta nuove categorie di lavoro. Non siamo ancora pronti per
utenti che cercano lavoro come infermieri, ma almeno sappiamo che ci
sono e impariamo qualcosa sulle loro esigenze”.




Teleport ha anche notato un aumento
del numero di pensionati interessati al servizio. “Sanno qual è il
loro budget, quanto prendono di pensione, se hanno una casa”, dice
Tamkivi. “Di solito non hanno altre persone a carico, i bambini, le
scuole e tutto il resto. Hanno qualche richiesta in più: per
esempio, la vicinanza a un ospedale. E magari non vogliono finire a
più di tre ore di volo dai nipoti”.




Ciò che Teleport non fa, tuttavia, è
aiutare a trasferirvi al di fuori di una città. Probabilmente
perché, con poche eccezioni, le zone rurali di tutto il mondo non
hanno le infrastrutture richieste dai lavoratori della conoscenza:
principalmente, una connessione internet veloce, ma anche un buon
accesso ai principali snodi di trasporto e agli spazi dove le persone
possono incontrarsi e scambiare idee.




Ma la tecnologia avanza
inesorabilmente e di conseguenza è difficile vedere come le città –
almeno nella loro forma attuale – possano evitare una futura
estinzione. Con la diffusione della banda larga super veloce anche al
di fuori delle zone urbane e con lo sviluppo delle tecnologie per la
realtà virtuale, le nostre città perderanno il loro posto sulla
mappa e diventeranno invece delle comunità digitali. Forse sta già
succedendo: siete più in contatto con i vostri vicini di casa o con
i vostri amici su Facebook?




Se si arriverà a una tecnologia di
realtà virtuale che funziona davvero, con impianti cerebrali che
possono trasmettere informazioni direttamente sull’iride, la linea
di confine diventerà più confusa”, osserva Tamkivi quando deve
dire se la città tradizionale sia la forma definitiva di
organizzazione umana. “C’è la cosiddetta
uncanny
valley
, l’incertezza su
quanto sia davvero vicina la realtà virtuale, ma a un certo punto lo
sarà. Non sono sicuro che la città sia la risposta migliore per
tutto quello che il genere umano potrà scoprire nei prossimi
secoli”.




(Traduzione di Monica Cainarca)





FONTE: Internazionale