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Chi sono i ghostwriter

di ilpost, 13 Maggio 2016.

Quanto
guadagnano, per chi lavorano e soprattutto: perché non scrivono
libri propri?


«Qualche
mese fa sono andata a una festa per l’uscita di un libro di una mia
autrice», dice Francesca Parravicini, ghostwriter, «e
all’improvviso mi sono accorta che intorno a me c’erano tutti i
miei personaggi. Almeno… molti. 

Erano tutte persone di cui
avevo scritto i libri. È stato molto straniante». 

Il mestiere
di Francesca Parravicini è scrivere libri senza comparire. Il suo
primo libro da ghost – pubblicato da Aliberti nel 2009 – si
intitolava In
viaggio con Alberto. Parole, storie, ricette della buzzicona che
incantò il grande Sordi
 di Anna Longhi. «È l’unica di
cui svelo il nome»,
dice Parravicini, «perché so che ne sarebbe
stata contenta»

In sette anni Francesca Parravicini ha scritto una
quarantina di libri, con punte di dieci all’anno, molti dei quali
per Mondadori, firmati da cantanti, attori, magistrati, sportivi,
gente della tv, fotografi, cuochi, insomma da chiunque abbia un
po’ di celebrità da spendere sul mercato.
 

«Quando racconto che
mestiere faccio, tutti mi chiedono perché non scriva libri
miei, come se ci potessi vivere. 

Certo che scrivo anche cose
mie, ma non le divulgo. 

Penso che alla gente non interessi. 
Sono molto riservata e non comparire non mi dà
problemi, anzi: quello che mi piace è entrare nel personaggio e
cercare di restituire la sua voce attraverso la scrittura».



I ghostwriter
sono una categoria professionale invisibile per mandato. Da una
ventina d’anni – da quando, cioè, i libri di celebrities
incominciarono a vendere tanto e prima che, youtuber a parte, le
vendite calassero – la loro importanza in editoria è
cresciuta, senza che a questa crescita si sia tradotto in un
maggior riconoscimento. Eppure il loro lavoro ha creato un genere
editoriale nuovo e paradossale, che meriterebbe di essere considerato
a sé: quello dell’autobiografia altrui o, se preferite, della
biografia in prima persona. 

La percentuale di libri di persone
famose non scritti da chi li firma è quasi del 100 per
cento. È una regola quasi assoluta per le autobiografie,
ma che in genere non vale per la narrativa – Fabio
Volo i suoi romanzi se li scrive da solo, lo stesso fanno Fossati
o Guccini – per i politici che spesso hanno già chi scrive
per loro e per i giornalisti – anche Bruno Vespa, i libri li scrive
da sé. 

Ogni casa editrice italiana – media o grande, ma anche
piccola se pubblica varia – ricorre ai ghostwriter spesso e
volentieri, perché garantiscono libri di qualità anche media ma
accettabile, che non andrà riscritto da capo, e si smazzano in
solitudine il rapporto, non sempre facilissimo, con l’autore. Il
problema arriva quando il personaggio famoso in
questione pretende di scrivere o propone un suo ghostwriter di
fiducia. Sono casi rarissimi, ma comportano rischi molto alti. Nella
migliore delle ipotesi, il libro richiederà molto lavoro e
cambiamenti tali da offendere la suscettibilità dell’autore
mettendo a rischio il progetto.



La tariffe sono
variabili, dipendono da più fattori: quante copie l’editore
spera di vendere, il peso contrattuale del ghost, la quantità di
lavoro necessaria. Con la crisi sono scese. 

Un libro medio di
una grande casa editrice viene pagato 4-5 mila euro, quelle più
piccole arrivano a offrire anche 1.800-2.000 euro, ma si
racconta di libri scritti per paghe da fame: anche 500 euro lordi per
un libro di 200 pagine. Nessuno indica casi concreti,
perché in questo campo è vietato fare esempi e apparire. I
contratti sono di curatela editoriale e pongono esplicitamente
come condizione la totale riservatezza. 

«La nostra riservatezza
sconfina nell’afasia» è il motto di Perroni
e Morli
, una società di servizi editoriali che ha ghostscritto
una dozzina di libri su commissione di editori o su diretta richiesta
degli interessati. 

A meno che non sia il ghost a proporre il
libro e a portare alla casa editrice la celebrità, non sono previste
percentuali sulle vendite, che diversamente sono sull’1-2 per cento
del prezzo di copertina. Per ogni copia venduta di – poniamo –
un libro che costa 20 euro, chi l’ha materialmente
scritto prenderà 20-40 centesimi. 

Per fare un libro un ghost bravo
impiega – compatibilmente con l’inseguimento del famoso di cui
scrive – due o tre mesi.


Negli ultimi anni –
probabilmente anche sull’onda del successo di Open
di André
Agassi scritto dal giornalista premio Pulitzer J. R. Moehringer e
arrivato in Italia a più di 500 mila copie – molti editori,
Mondadori in testa, stanno provando ad aggiungere firme di
rafforzo: Gianni Riotta ha intervistato
Xavier Zanetti
dell’Inter, il telecronista Alessandro Alciato
ha cofirmato il
libro
di Carlo Ancellotti, lo scrittore Enrico Brizzi quello
del ciclista Vincenzo Nibali, mentre il
libro di Arrigo Sacchi
 è un’intervista allo scrittore
Guido Conti e quello
di Francesco Moser è firmato anche da Davide Mosca. 

Quando il
ghostwriter esce dall’anonimato, i confini del mestiere sfumano, ma
anticipi e royalties crescono, in alcuni casi anche sopra i 10 mila
euro. Il problema è che, almeno fino a oggi, di veri successi in
Italia non ce ne sono stati. 

L’unicità della persona famosa –
l’aura,
avrebbe detto Walter Benjamin – non va intaccata da altre presenze. 

«I libri di autori famosi per me rappresentano il corpo
simbolico dell’autore», dice un editore che non ha nessuna voglia
di essere citato per nome e cognome, «e chi li compra vuole portarsi
a casa un pezzo di questo corpo simbolico. Rivelare il nome del
ghost ne indebolisce il valore. 

Per questo in genere gli
editori preferiscono che non compaia». Quando succede – come nel
caso dell’autobiografia di
Loredana Bertè
 scritta dal giornalista Malcolm Pagani
– è perché il nome di un giornalista può aiutare il libro a
entrare nel circuito delle recensioni, che altrimenti non avrebbe.
«Ma che compaia o no, chi scrive un libro autobiografico non lo
considero un ghost», dice sempre l’anonimo editore, «è un
mnemagoghi,
uno che sa tirare fuori i ricordi e fa venire voglia di
ricordare. È un co-autore perché senza la combinazione di
quelle due persone il libro non potrebbe esistere».


Nella nostra idea della
scrittura e della fama sopravvive un certo residuale feticismo
di derivazione romantica. 

I libri tendono ancora a essere
concepiti, cioè, come creazioni di autori singoli, anche se il
mestiere di scrivere – in politica, in televisione, nel cinema
e perfino in editoria – è sempre più, e forse un po’ è sempre
stato, un’attività collettiva che prescinde dall’esistenza
effettiva di un unico autore. All’inizio del Novecento la maggior
parte dei libri per bambini pubblicati negli Stati Uniti erano
scritti da una sola persona: Edward
Stratemeyer
, un autore di libri di avventure che, come ha
scritto
 il New
Yorker
, fece
per l’editoria per ragazzi quello che Henry Ford avrebbe fatto
per le automobili. 

Stratemeyer creò un impero editoriale fabbricando
decine di serie di successo firmate con pseudonimi diversi
e scritte da squadre di ghostwriter al suo comando e secondo formule
fisse – le più famose si intitolavano The
Rover Boys
,
Hardy
Boys
,
Nancy
Drew

Qualcosa di simile – secondo il sito Priceonomics
– succede oggi con autori di bestseller come Tom Clancy e James
Patterson, i cui libri sono scritti da squadre di scrittori. 

Nel
1994 l’editore inglese William Heinnemann ebbe un’idea ancora più
radicale: incaricò Caroline Upcher, editor della casa editrice, di
scrivere un romanzo ambientato nel mondo della moda, e poi pagò
Naomi Campbell per firmarlo. (Il libro si intitola Swan,
Cigno,
in Italia fu pubblicato da Mondadori). «L’idea era
comprare il nome», ha
detto
Caroline Upcher al Guardian,
nello stesso modo in cui una casa di moda ingaggia una top
model o un marchio un testimonial. 

In Italia non succede niente
di paragonabile, la narrativa è ancora in grandissima parte
scritta da singoli autori, che al massimo possono affiancati da
collaboratori messi a disposizione dalla casa editrice. 

Con la
parziale e possibile eccezione di alcune saghe fantasy o
romanzetti di genere in serie – di cui nessuno però fa i
nomi – il ghostwriting è una questione di autobiografie
di gente famosa (imprenditori compresi).



Una delle difficoltà
maggiori del mestiere di ghostwriter è che non esiste un metodo
di lavoro fisso, perché bisogna adattarsi alle esigenze e
disponibilità del sedicente autore. 

«La situazione
gold standard

è che ti permettano di passare tre, quattro giorni insieme di fila
nei posti e con le persone con cui vivono», dice Parravicini,
«altrimenti sei costretto a inventare, e non è mai la stessa
cosa. La situazione peggiore è quando la casa editrice ti
chiede di rimettere le mani in testi già scritti ma
impubblicabili, perché poi si apre un lavoro molto delicato con gli
autori». 

Scrivere l’autobiografia di un’altra persona – per
quanto in genere i libri dei famosi non entrino in dettagli
intimi – è un lavoro delicato che consiste, essenzialmente, nel
capire come il cliente vede se stesso e deve necessariamente
basarsi su un rapporto personale. «Sul rapporto devi
lavorare prima, altrimenti è finita», dice Parravicini, «ho autori
che dopo la pubblicazione mi chiamano anche due volte a settimana per
sapere come va. Quello con l’autore è un rapporto breve, ma
intenso e può continuare anche dopo. Una mia autrice,
oggi, è una delle mie migliori amiche». 

Non capita mai che chi si
vede raccontato in prima persona dalle parole di un altro abbia un
senso di espropriazione di sé? O che si offenda per qualche motivo? 

«È raro, ma può succedere. La cosa più complicata che mi
sia successa», racconta, «è stato lavorare con una
donna che alla fine, mentre rileggevamo quello che avevo
scritto, cercava sinonimi pur di riappriopriarsi del testo».


Il libro conserva
una forte carica simbolica e identitaria. Accanto alle grandi
case editrici e agli autori famosi, esiste infatti anche un
ghostwriting diffuso che si rivolge a chi desideri vedere un
libro stampato a proprio nome, ma non si ritiene in grado di
scriverlo. 

Un’attività che sconfina con il self
publishing
e che dice quanto il libro – nonostante i
social network – conservi una funzione centrale nella
comunicazione di sé. 

Su Internet, probabilmente anche a causa della
crisi, esistono decine
di società editoriali
che offrono servizi di ghostwriting a chi
ne facciano richiesta. 

I clienti non devono essere pochi. 
Sul
sito di Bozzerapide
di Podenzano, Piacenza – una società
editoriale scelta a caso tra le tante – c’è un calcolatore
di preventivi automatico
: farsi scrivere, editare e correggere
un testo «di buona qualità» per un libro di 240 pagine
costa 4.320 euro IVA inclusa (scontati da 6 mila). 

Il tempo
previsto per la consegna è di 384 giorni. 

«I nostri clienti
sono privati o imprenditori più che case editrici», dice
Beniamino Soressi che dirige l’agenzia editoriale, «Diversi
clienti sono persone che vorrebbero scrivere la propria biografia,
spesso per poi stamparla e lasciarla in eredità ai discendenti. Ci
sono aspiranti autori alle prime armi o che hanno un “blocco”
oppure persone che ritengono di avere avuto una bella idea su una
trama ma non sentono di avere la maturità stilistica e le capacità
narrative necessarie. Oppure ci sono gli imprenditori
che intendono scrivere una biografia aziendale, dove intrecciano la
loro vita personale alla storia della loro azienda».



Il settore più
fantasmatico e invisibile del mondo ghostwriting è proprio il
business. 

Un mondo a sé, circondato dal mistero e protetto dalla
riservatezza di chi scrive e di chi pubblica. Si va dalle
autobiografie ispirazionali di imprenditori che vogliono diventare
famosi in tutto il mondo – come Richard Branson e Donald Trump –
ai libri commissionati da uomini d’affari desiderosi di consolidare
la propria immagine nel settore in cui operano usando il libro come
un biglietto da visita per dimostrare la propria importanza (nel
Cinquecento la stessa funzione la facevano i ritratti commissionati
a pittori famosi). 

Dice Roberto Race, il fondatore di The
Ghost Team
, un’agenzia di comunicazione e ghostwriting presente
a New York, Londra, Bruxelles, Dubai e Roma: «La nostra è la
micro-micronicchia dei libri aziendali o di vision,
cioè quelli in cui un imprenditore racconta la sua storia di
successo e la sua visione del suo settore. Il mio cliente tipo
capisce che all’interno della sua strategia corporate
di comunicazione lo strumento libro è utile, anzi centrale. Ma sa
anche che deve lavorare sui contenuti e che il libro è la
conclusione di un processo che parte dai blog e dagli articoli per i
giornali». 

Nonostante sia una micro-micronicchia, Ghost Team ha sede
a Londra, ha una cinquantina di collaboratori, tra scrittori grafici,
traduttori, e cura una quarantina di “progetti” all’anno in più
lingue – «i libri escono almeno in inglese e nella lingua madre
dell’imprenditore, ma io consiglio sempre anche l’arabo». Il
giro d’affari – dice Roberto Race – è di 1,5 milioni di euro
all’anno. Chi fa un libro con Ghost Team è disposto a spendere dai
30 mila fino ai 100 mila euro – il 30-40 per cento in meno delle
agenzie americane concorrenti – di cui il ghost prende dai 5
mila ai 30 mila, a seconda del lavoro da fare e del nome che porta
(anche se è invisibile). «Ci sono clienti che sentono la
fascinazione per la firma ghost. Quindi tra i nostri
collaboratori ci sono anche persone note, un ex ambasciatore, firme
di giornali importanti, e prima che il libro vada in stampa spesso
chiediamo un parere e magari una prefazione a un direttore di
giornale».



Race ci tiene a chiarire,
però, che l’approccio e l’etica sono anglosassoni: a
differenza di quanto – dice – accade in Italia, il lavoro di chi
scrive materialmente il libro si esaurisce nel libro, che non
è una scusa per assicurarsi articoli benevoli o di elogio in
futuro. 

La motivazione dell’imprenditore che si rivolge a Ghost
Team non è la vanità – o almeno, non soltanto
– è costruire e comunicare la propria immagine e quella
dell’azienda nel mondo: «Se per esempio uno dirige una grande
società dell’energia, racconterà dove secondo lui sta andando il
mercato dell’energia, farà l’evangelizzatore sul suo settore». 

In questo contesto gli editori si trovano alla fine del
processo, ma non vi prendono parte. 

Si limitano, se capita,
a raccoglierne i frutti. 

«La casa editrice non paga
niente, fa il lavoro di editing se è il caso, stampa e
distribuisce almeno la prima tiratura, ma in realtà ne potremmo fare
a meno». È più una questione di marchio. Ma chi sono gli editori a
cui vi rivolgete? 

«Grandi editori, in tutto il mondo, anche in
Italia dove però il mercato non è maturo (per noi rappresenta
il 20-25 per cento del totale). È che ho il potere
contrattuale di scegliere l’editore che mi sembra più adatto.
È un settore anomalo in cui l’autore è interessato a
comprare migliaia di copie dei libri che firma. Che cosa vuole
che sia per uno che è a capo di una multinazionale
comprarsi 6 mila copie del suo libro da regalare a
dipendenti, buyers
stakeholders?».