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Una rock band porta in Europa la voce dei siriani.

di Naomi Larsson, theGuardian,
07 Aprile 2016


(Traduzione di Giusy Muzzopappa)

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I Khebez Dawle

Il viaggio attraverso il Mediterraneo
e l’Europa è tetro e doloroso per la maggior parte dei profughi –
ma per il musicista siriano Anas Maghrebi, 26 anni, è stato
divertente. 

“È una cosa strana da dire, ma lo è stato davvero”.


La Siria devastata dalla guerra era
diventata un “vicolo cieco” per i musicisti
, racconta Maghreb.
Dopo le proteste contro il presidente Bashar Assad cominciate nel
2011, il paese è precipitato nella guerra civile. 

Quando Rabea, il
batterista della sua band originaria, è stato ucciso nel 2012, ha
capito che non c’era più speranza per la libertà artistica. 

“Il
nostro amico era un attivista pacifico; tutti noi a un certo punto
abbiamo partecipato alle proteste, ma lui era il più serio di tutti.
Lui dava una mano, non si limitava a partecipare”, racconta
Maghreb. “È stato un momento buio per noi, perché il sogno stava
svanendo”.


Nel 2013 Maghrebi ha lasciato Damasco
per andare in Libano, dove ha incontrato gli altri musicisti con cui
ha formato i Khebez
Dawle
, ma in quanto profughi non potevano guadagnarsi da vivere
lì. 

Lo scorso agosto i quattro membri della band – Maghrebi,
Muhammad Bazz, Hikmat Qassar e Bashar Darwish – hanno capito di
dover compiere un altro sforzo. Hanno venduto i loro strumenti per
pagare i trafficanti, 1.200 dollari ciascuno, e si sono imbarcati su
un gommone per attraversare il Mediterraneo.


Ci hanno detto che siamo stati
piuttosto fortunati ad aver trovato quel gommone con solo 16 persone
a bordo. Era divertente però, divertente in modo complicato”.

Quando sono approdati a Lesbo, hanno
distribuito copie del loro disco ai turisti sulla spiaggia.
 

“Di
solito vedevano arrivare barche piene di persone con sguardi
spaventati e volti tristi. Quella volta invece hanno visto visi
felici, sorridenti, ragazzi che parlavano inglese. Ci siamo
presentati come una band. Erano tutti sconvolti”.

Una settimana dopo, mentre si
trovavano in un centro profughi in Croazia, i Khebez Dawle hanno
ricevuto la richiesta di esibirsi in un concerto a favore dei
migranti organizzato da alcuni attivisti. Poi la band ha suonato in
un locale di Zagabria che aveva ospitato anche gruppi del calibro dei
Mogwai. Si sono fatti prestare gli strumenti, hanno suonato davanti a
un pubblico da tutto esaurito e da allora hanno ricevuto inviti per
concerti e festival in tutt’Europa. “Per noi era piuttosto
surreale indossare ancora i vestiti che avevamo durante il viaggio.
Tutta questa storia non era stata pianificata, è questo il bello”.

Anche se riusciti a far prendere una
piega diversa al viaggio, sotto altri punti di vista la loro non è
una storia molto diversa da quelle strazianti che parlano di lunghe
attese, di maltrattamenti ai confini e di perdita dell’identità. Maghrebi ricorda una notte di marcia, coperti di fango, per arrivare
in Croazia. 

La polizia croata li ha fermati al confine e trattenuti
per più di 24 ore.
 

“Abbiamo cercato di essere amichevoli, di
fargli vedere che non eravamo dei mostri, né dei criminali, solo
persone normali”, racconta Maghrebi.


Uno dei poliziotti era un batterista. […]

Maghrebi ricorda: “Ha tirato fuori il telefonino e ha iniziato ad
ascoltare una delle nostre canzoni su YouTube. Ironia della sorte, la
canzone parla di libertà, prigione e prigionieri. Potevamo leggergli
negli occhi la domanda ‘cosa ci fate qui?’. Ma la gente non sa
cosa sta accadendo in Siria. Non sanno che noi non avevamo altra
scelta”.

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La situazione politica e sociale in
Siria attraversa tutta la musica dei Khebez Dawle. 

Il nome della band
significa “pane del governo”,
un modo di dire siriano che indica
dipendenza dallo stato e bella vita. 

Ma oggi ha un significato
diverso. 

“Quello che è successo in Siria ha fatto capire a tutti
noi che il vero ‘pane’ del paese, o la vera base su cui costruire
un paese stabile e libero, è il popolo. La musica dei Khebez Dawle
parla del popolo”, dice Maghrebi.


Affrontare un viaggio del genere fa
aumentare la tua fiducia negli esseri umani. Le persone che abbiamo
conosciuto in questo viaggio sono solo esseri umani meravigliosi, dal
cuore gentile e autentici; non ricordo i loro passaporti. Questo è
un grande insegnamento”.

La responsabilità di parlare

I Khebez Dawle si descrivono come una
band indie rock orientale – un misto di musica tradizionale siriana
e rock occidentale, influenzati da Pink Floyd e Radiohead, con testi
in arabo. 

Il primo album, che porta il nome del gruppo, è uscito ad
agosto 2015.


Finanziato dall’Arab fund for art
and culture e dall’Arab culture resource
, segue la storia di un
giovane siriano che assiste alla primavera araba e alle rivolte in
Siria. 

L’album esplora queste vicende senza pregiudizi politici. 
“In quel momento era tutto un caos e non c’era alcun motivo per
spingere la gente da questa parte o da quell’altra”, ricorda
Maghrebi. 

Il prossimo album, ancora in lavorazione, racconta una
storia diversa. 

Parla delle battaglie personali dei profughi: una
riflessione fatta da giovani siriani che vivono lontano da casa e
devono affrontare un paese straniero, posti nuovi e gente nuova.

Attraverso la loro musica, i Khebez
Dawle vogliono condividere le storie di migranti che cercano
disperatamente un rifugio
, con la speranza di abbattere le barriere
tra l’Europa e il popolo siriano. 

I membri della band, che oggi
sono richiedenti asilo a Berlino, hanno usato il crowdfunding per
comprare l’attrezzatura e stanno pensando a un tour europeo per il
prossimo anno. 

Sperano di fare un paio di date a Londra la prossima
estate.


Con la band abbiamo la
responsabilità di parlare, di raccontare agli europei degli altri
siriani che non sono ascoltati”, dice Maghrebi. 

“Per me questo
conta molto di più che suonare nei locali, ballare e altri cose di
questo tipo, è molto più di questo. Si tratta di assumersi la
responsabilità di fare da passaparola. Dobbiamo suonare davanti a
persone di culture diverse, di paesi diverse, e dobbiamo assicurarci
che la la lingua non sia più una barriera”.