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Tre mesi con i braccianti Sikh, nell’inferno del caporalato

di Marco Omizzolo
frontierenews,

20 Aprile 2016


Foto di Umberto Feola


Più di tre mesi trascorsi a lavorare
nei campi agricoli della provincia di Latina con uomini obbligati a
lavorare come schiavi. Tre mesi nell’inferno dei braccianti indiani
che raccontano il volto oscuro dell’Italia. 

Un paese che nasconde
parte di sé sotto le gonne del malaffare, espressione di un
capitalismo baro, cinico, violento, spregiudicato e fondato sullo
sfruttamento lavorativo, a volte in complicità con mafiosi di ogni
genere e imprenditori sempre pronti a elogiare il potente di turno. 

Tre mesi dentro le serre pontine, compagno di lavoro di persone a cui
nessuno chiedeva mai il nome. Uomini considerati solo strumenti per
il profitto del padrone.

Questa è la sintesi della mia esperienza di
ricerca sociologica condotta sulla comunità punjabi in provincia di
Latina e sul bracciantato agricolo, attività nella quale molti di
loro sono impiegati.

Braccianti che dovevano obbedire,
senza discutere. 

Uomini con le mani callose e sporche di terra, la
schiena piegata per 10, 12 e a volte anche 14 ore al giorno per
raccogliere pomodori, cocomeri, ravanelli o insalata. 

Il tutto per
circa 20-30 euro al giorno. 

Accade ogni giorno nelle campagne del
pontino. 

In provincia di Latina si contano circa 30mila punjabi, in
prevalenza residenti nei Comuni costieri a spiccata vocazione
agricola. Uomini, oggi sempre più anche donne, costretti a coltivare
e a raccogliere gli ortaggi che poi prendono le autostrade della
Grande distribuzione Organizzata, filiera sporca responsabile di
tanta parte dello sfruttamento lavorativo, per finire nei piatti dei
cittadini-consumatori di tutta Europa. Sono lavoratori col turbante
che ho imparato a conoscere, che ho intervistato a centinaia, che ho
guardato negli occhi anche quando si inumidivano dicendomi che
avevano sbagliato a venire in Italia. 

Pensavano al nostro paese come
una grande occasione di riscatto sociale ed economico per sé e la
propria famiglia, l’opportunità di vivere “all’occidentale”,
di vedere il mondo che gli avevano raccontato amici e parenti. 

E
invece si sono trovati a lavorare piegati nei campi agricoli per
poche centinaia di euro al mese sotto lo sguardo vigile del caporale
o del padrone di turno e a dire sempre “sì capo”.



Partivo ogni mattina in bicicletta con
un gruppo di braccianti indiani da Bella Farnia, piccolo residence
vicino Sabaudia, per arrivare nel campo agricolo indicatoci dal
caporale. 

Per ore a raccogliere fiori di zucca o cocomeri, sperando
che nessuno dei miei compagni pronunciasse il mio nome italiano. Ero
lì, sulla mia terra, per osservare le modalità del reclutamento,
dell’intermediazione illecita (caporalato), ascoltare le parole dei
lavoratori, fare la loro stessa fatica, guardare il datore di lavoro
e poi provare a studiare il tutto, con gli occhi del sociologo e
l’indignazione dell’essere umano, cercando di non smettere mai di
restare umano. 

E ho osservato datori di lavoro pretendere dai
lavoratori di essere chiamati padrone, obbligare i braccianti indiani
a fare tre passi indietro e ad abbassare la testa prima di rivolgersi
al capo italiano. Ho visto braccianti indiani lavorare tutti i giorni
della settimana per un mese intero ed essere pagati appena 400 euro.
Ed io con loro. 

Ho parlato con lavoratori indiani che dopo aver
lavorato per settimane senza sosta e aver chiesto un giorno di riposo
sono stati allontanati, licenziati, cacciati con ignominia. 

Ho
intervistato i braccianti aggrediti e rapinati del mensile
faticosamente guadagnato da bande di criminali italiani. 

Gli indiani
mi spiegavano che denunciare è inutile. 

Non conoscono i nomi degli
aggressori e anche quando ne vengono a conoscenza non si
permetterebbero mai di farli alla polizia, perché spesso sono i
figli o gli amici del padrone o i propri compagni di lavoro italiani. 

Meglio stare in silenzio dunque, che denunciare e perdere il lavoro. 
Ho incontrato lavoratori indiani che hanno subito spedizioni punitive
solo per aver chiesto il riconoscimento di un giusto salario, come
Hardeep, che dei giovani italiani in auto tentarono di investire
mentre tornava con la sua bicicletta verso casa al termine di una
faticosissima giornata di lavoro. 

Oppure Sarbjeet che sfuggì per
poco al tentativo che dei delinquenti fecero di tramutarlo in una
torcia umana, gettandogli addosso una tanica di benzina. 

O ancora
Lathi, al quale ruppero entrambe le gambe. Per non parlare di tutti
quei lavoratori indiani (ma anche rumene, bangladesi e a volte anche
italiani) investiti per strada mentre si recano o tornano dal campo
di lavoro e lì abbandonati. 

E poi gli incidenti sul lavoro mai
denunciati. 

Le percosse e le violenze subite da chi osa alzare la
testa e il silenzio costante delle istituzioni, che sollecitate sul
tema, rispondono sempre che si tratta solo di casi isolati. 

I padroni
hanno molti soldi, pagano campagne elettorali, spostano migliaia di
voti. Meglio scegliere con attenzione i propri avversari politici.
Meglio stare dalla parte del più forte che di coloro che non votano,
non parlano italiano e non si ribellano. E così la politica pontina
discute poco di questo tema. Il silenzio, loro pensano, paga e molto.

È lo stesso silenzio che fino a poco
tempo fa copriva le urla di chi denunciava il radicamento delle mafie
nel pontino, dei killer di camorra e delle loro relazioni con
l’economia e la politica pontina. Mafie e sfruttamento lavorativo,
riciclo del denaro e truffe, violenza e silenzi. Gli indiani piegati
nei campi a lavorare come schiavi, i padroni a volte servi dei
mafiosi a contare soldi, mentre tutto intorno il silenzio assordante
di quasi tutte le istituzioni. 

Solo la Questura di Latina di recente
si è svegliata e con coraggio ha iniziato ad ascoltare le nostre
denunce. 

E allora continuiamo a denunciare, a raccontare e a vivere
stando dalla parte degli schiavi di questo capitalismo. 

O almeno ci
proviamo consapevoli che non si tratta di episodi isolati, di
casualità, ma della manifestazione di una particolare e sempre più
diffusa organizzazione del lavoro e poi sociale che comprende padroni
e schiavi coinvolti in rapporto di dipendenza, coi primi che
comandano e i secondi che obbediscono. 

Mancano le catene, per il
resto la condizione di servo o di schiavo è drammaticamente
evidente. Così nasce il sistema pontino di reclutamento e
sfruttamento della manodopera bracciantile straniera, indiana in
particolare, nei campi agricoli. 

L’espressione più truce di un
capitalismo globalizzato, senza più remore e coscienza. 

Gli indiani
vengono sfruttati e non denunciano, i padroni sfruttano e tacciono,
il sindacato, soprattutto la Cgil, fa quel che può, le mafie
proliferano, i cittadini fanno finta di nulla.



Le storie dei braccianti punjabi
pontini sono state raccontate più volte da In Migrazione
(
www.inmigrazione.it)
con articoli, dossier e documentari. Un impegno costante dedicato a
chi spesso non riesce ad esprimere la propria rabbia. I nuovi
schiavisti si fanno chiamare imprenditori. Sono invece solo
sfruttatori, espressione di un capitalismo che pare vincente ma che è
invece fragilissimo e sull’orlo costante della crisi.



Dopo le nostre denunce, avendo avuto
accanto sempre la Cgil, sono iniziate le reazioni. Intimidazioni,
violenze, provocazioni, peraltro sempre denunciate. 

Ma anche i primi
arresti di imprenditori e faccendieri, i sequestri di alcune aziende
agricole, le denunce contro i primi caporali, a volte anche indiani,
le inchieste di Medici senza Frontiere, Medici per i Diritti Umani,
di Amnesty International. Una grande coalizione di donne e uomini che
con coraggio hanno raccolto le testimonianze dei braccianti indiani e
hanno analizzato, studiato e raccontato un inferno invisibile solo
agli occhi di chi vuole essere distratto.



Molti i casi inquietanti. Forse due su
tutti meritano di essere raccontati. Il primo riguarda l’uso di
sostanze dopanti da parte dei braccianti indiani per sopportare le
fatiche fisiche e psicologiche subite nei campi agricoli. Vendita nei
campi e assunzione di sostanze nocive che avveniva e avviene ancora
con la complicità colpevole del padrone di turno. 

Alcuni braccianti,
infatti, assumono metanfetamine, antispastici e oppio per riuscire a
soddisfare gli ordini del padrone che esige sempre di più. Se hai 50
anni non puoi lavorare per 12 ore al giorno tutti i giorni senza
sosta. 

Ma non puoi permetterti neanche di perdere quel lavoro. 
E
allora ti dopi. 

Prendi oppio, magari con vergogna e di nascosto come
mi è capitato più volte di vedere, perché hai ancora uno o due
ettari di carote da raccogliere e sei così stanco che non riesci
quasi a restare in piedi. 

Il dossier di In Migrazione, Doparsi per
lavorare come schiavi
(http://www.inmigrazione.it/it/dossier/2014—doparsi-per-lavorare-come-schiavi)
ha riportato le prime testimonianze dai braccianti indiani che
raccontano il loro inferno fatto di sostanze dopanti, fatica,
sfruttamento e ancora pochissimi soldi, mentre il saggio contenuto
nella collettanea Migranti
e territor
i analizza questo fenomeno con maggiore precisione e lo
confronta con la storia del bracciantato agricolo italiano della
prima metà del Novecento. Dei circa 9 euro l’ora di lavoro
previsti dal contratto provinciale al lavoratore ne arrivano solo tre
o quattro. Il resto rimane nelle tasche del padrone, che li spartisce
con il commercialista di turno, artefice anch’egli dello
sfruttamento lavorativo e con lui tutti quei professionisti che
consentono al padrone di evitare i controlli amministrativi e
ispettivi, mimetizzandosi tra le pieghe del sistema ufficiale. Questo
è il capitalismo globale? 

Le riforme del lavoro vanno sempre in
questa direzione. Aiutano il padrone, riconoscendogli un ruolo
sociale che non merita, sbilanciando i rapporti di potere a suo
vantaggio e contribuendo a rendere il lavoratore ancora più
dipendente dalla sua volontà. 

Ciò vale anche per le ultime riforme,
Jobs Act compreso. 

Si mortificano i diritti dei lavoratori, la loro
capacità di autodeterminare la propria condizione economica e
sociale, di lottare per i propri diritti, di rappresentanza e si
rende muta la dialettica propria del rapporto tra capitale e lavoro. 

Di Vittorio reagirebbe portando milioni di lavoratori, braccianti e
operai, in piazza. 

Darebbe loro la voce che oggi non hanno. 
Noi,
senza dubbio, facciamo ancora troppo poco.


Il secondo caso riguarda quello di un
lavoratore indiano che dopo aver lavorato per circa tre anni per una
retribuzione di circa 400 euro al mese decise di rivolgersi proprio a
In Migrazione, per cercare di avere giustizia. 

Dopo aver sporto
denuncia, a distanza di due anni, si attende ancora la prima udienza. 

Nel mentre quel lavoratore, dalla lunga barba e col turbante, è
stato allontanato dal suo ex datore di lavoro e costretto, insieme ai
due testimoni faticosamente trovati, a cercare lavoro fuori regione. Questa è la giustizia italiana. 

Le sue inefficienze nascondono
ingiustizie che colpiscono ancora i più deboli e scavano un fossato
quasi invalicabile tra poveri e ricchi.


Intanto gli studi, le interviste, le
indagini continuano. 

Siamo stati ascoltati dalla Commissione
antimafia del Parlamento italiano, ci siamo costituiti come parte
civile nel primo processo contro un imprenditore agricolo fondano
accusato dai suoi stessi lavoratori indiani di truffa documentale e
sfruttamento. 

Abbiamo avviato il primo sportello legalità con il
progetto Bella Farnia finanziato dalla Regione Lazio e Arsial, e
durato solo sei mesi ma capace di determinare alcune svolte
fondamentali. In soli sei mesi, infatti, abbiamo organizzato un corso
di italiano per circa 20 persone, fatto più di 80 consulente legali
gratuite a lavoratori che sino ad allora avevano conosciuto solo le
pratiche dello sfruttamento e la rabbia strumentale del padrone. 

Di
queste ben 15 sono diventate vere e proprie vertenze giudiziarie
dalle quali ci aspettiamo un minimo di giustizia. Una buona pratica,
in sostanza, riconosciuta anche dal CNR e da alcuni importanti
giornali tedeschi, che meriterebbe di continuare ad operare per
saldare un nuovo patto, ancora fragile, tra la comunità punjabi
pontina e gli italiani onesti. 

Proprio nel pontino è nata la
proposta di introdurre, dopo averlo aggiornato, il reato di
caporalato nel 416bis (associazione mafiosa) così consentendo il
sequestro e poi la confisca delle aziende che praticano la riduzione
in schiavitù dei lavoratori. Ma non basta. 

Bisogna rimettere al
centro il lavoro, i diritti, la giustizia sociale, saper riconiugare
tutto questo in chiave moderna includendo nella battaglia gli
imprenditori onesti e capaci, sconfiggere malaffare, mafie e le norme
e prassi peggiori della Grande distribuzione Organizzata. Proprio nel
Sud pontino esiste il Mercato ortofrutticolo di Fondi, già al centro
delle cronache giudiziarie italiane per la presenza di clan mafiosi
che in associazione lo utilizzavano per i propri loschi affari. 

Nella
battaglia per i diritti dei lavoratori della terra rientra la lotta
contro le mafie dunque, e la liberazione del Mof dal giogo degli
interessi trasversali e dei traffici illeciti e leciti di mafiosi e
sfruttatori che insieme strangolano parte dell’agricoltura pontina
e nazionale.



Intanto ogni giorno nei campi agricoli
pontini si ripete la pratica dello sfruttamento. 

Coi caporali che
lucrano, i padroni che speculano, i lavoratori che si dopano e a
volte muoiono di fatica, i commercialisti e alcuni consulenti del
lavoro che riempiono di soldi le loro casseforti. Il sistema
agromafioso così descritto va sconfitto quanto prima sul piano
culturale, economico e giudiziario. Sapremo presto se esiste questa
volontà politica o meno. Sapremo presto se anche questo governo sta
coi padroni o coi lavoratori. 

Una via di mezzo, stante la situazione
di fatto, non esiste, se non al costo di accettare una mediocre e
ipocrita posizione mediana che vuole tenere tutto e tutti insieme per
puro calcolo di convenienza politica. 

A noi non resta che continuare
ad ascoltare i lavoratori, le loro storie, le aspettative di vita, i
loro progetti e a denunciare, con cognizione di causa e coraggio,
quanti sulle spalle piegate dei braccianti indiani hanno costruito le
loro fortune, facendosi chiamare padroni e obbligando gli indiani ad
abbassare la testa. 

Abbassare la testa poi chissà ancora per quanto
tempo.