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Teatro indipendente in Romania. Intervista con George Remes.

di Redazione Italia, 01 Aprile 2016

(Pubblicato originariamente su
Altrevelocità
e parte di una serie di rassegne sul teatro nei paesi dell’est
Europa)

George Remes è tra gli
iniziatori di uno dei principali festival di teatro indipendente in
Romania, che vuole superare la divisione tra quanto accade a Bucarest
e quanto avviene, invece, nel resto del paese.
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George Remes

George
Remes è attore e direttore artistico del Festival del Teatro
Indipendente di Bucarest, nonché direttore del Teatro Godot di
Bucarest.

Nel cuore
di Bucarest, il Teatro
Godot
cerca di riunire entrambe le anime di un paese che
teatralmente sembra diviso in due: scena istituzionale e
indipendente, centro e periferia. 
George Remes dirige due sale in cui
alterna spettacoli di testo, popolari e altri che affondano
pienamente nella ricerca e nell’autonomia del processo creativo.
Allo stesso
tempo, è fra gli ideatori del Festival
nazionale del teatro indipendente
che è giunto alla seconda
edizione e che intende riunire in alcune strutture di Bucarest le
esperienze teatrali nate e cresciute al di fuori della capitale. 
Si
tratta di una settimana fitta di spettacoli, incontri col pubblico e
momenti in cui la parola viene data a critici e operatori. Con Remes
ragioniamo di quest’esperienza e delle strade che sta percorrendo la
scena rumena.
 
 
Puoi
raccontarci come è nato il festival e soprattutto perché, come
scritto nella presentazione, lo ritenete un’iniziativa necessaria
nel contesto attuale?

Si
tratta di un’idea che si è formata in modo abbastanza spontaneo,
attraverso discussioni continue tra attori, registi e operatori. La
nostra urgenza era semplicemente quella di voler creare un festival
del teatro indipendente, che potesse avere una dimensione nazionale. 

Esisteva infatti un altro festival con caratteristiche simili, che
raccoglieva però solamente gruppi e artisti di Bucarest.
In un certo
senso, la nostra era una scommessa: non c’è molta comunicazione, a
livello teatrale, fra la capitale e altre città della Romania e non
eravamo sicuri che esistesse un numero di realtà sufficienti a
creare un festival. Abbiamo così iniziato a ricercare esperienze
interessanti e ci siamo resi conto che esistono molte esperienze
indipendenti, magari piccole, su tutto il territorio. 
Ci è sembrata
un’iniziativa necessaria proprio per l’evidente disparità di
mezzi e visibilità che intercorre fra Bucarest e il resto del paese.
Oggi, nella
capitale si contano almeno 11 residenze indipendenti, quando la
seconda città ne ha 3 a dir tanto. Il nostro obiettivo è allora
quello di portare alla luce un fenomeno artistico che non si può
ignorare e permettergli di crescere attraverso incontri, scambi e una
cornice più adatta alle sue potenzialità.
Qual
è la vostra concezione di teatro indipendente?
 

Io
penso che debba essere considerata indipendente qualsiasi esperienza
teatrale che non sia istituzionale. Al momento, c’è un grosso
dibattito riguardo la distinzione fra teatro “indipendente”
e “privato”. Credo succeda perché si tende ad associare il
concetto di “indipendente” con l’idea di essere in lotta
per un riconoscimento, di essere in una posizione di marginalità
sociale. 

Nel momento in cui una realtà inizia a guadagnare consenso
e mezzi, come una residenza o la possibilità di esibirsi con
costanza, molte persone dicono che quello è teatro “privato”,
non più indipendente. 
Si tratta, a mio modo di vedere, di una
concezione un po’ ideologica e settaria che rischia di bloccare la
crescita di un movimento invece che favorirla.
Festival di teatro indipendente di Bucarest
Illustrazione per la prima edizione del Festival di teatro indipendente di Bucarest (novembre 2013)
Queste
distinzioni non hanno niente a che fare con differenze estetiche o di
argomenti trattati?

A
volte, ma direi che è più una questione strutturale e
organizzativa. 

Penso che la distinzione di fondo, se parliamo di
teatro istituzionale o statale e teatro indipendente – che considero
un tutt’uno con quello privato – sia dato dal presupposto di una
totale libertà d’espressione che si verifica nel secondo. 
Ciò
ovviamente significa che possano esserci tendenze e spettacoli più
“di ricerca” o “sperimentali”, ma si tratta di
risultati, che non qualificano automaticamente quel tipo di teatro
come indipendente.
In quanto
operatore e organizzatore del festival, mi importa poco che un
artista aderisca a determinate estetiche o che i suoi spettacoli
contengano determinati elementi piuttosto che altri. M’interessa
che la sua proposta scenica nasca senza alcun precondizionamento o
paletto. 
Al contrario, nel teatro istituzionale ciò non è
possibile: il repertorio è già dato e spesso diventa qualcosa di
autoreferenziale, dove l’artista semplicemente misura le proprie
capacità di fronte a un pubblico più ampio.


 
 

Non
c’è quindi un lavoro di selezione sulle opere che vengono
presentate nel festival?

Sostanzialmente
no. Credo che in questo momento non sia la priorità: il movimento
indipendente ha bisogno di unità, non di divisioni o “filtri”. 

Ciò non toglie che siano previsti riconoscimenti, ma si tratta di
momenti posteriori alla presentazione dell’opera al pubblico; né
io né gli altri operatori vogliamo ergerci a “giudici” del
teatro indipendente. Come detto, il nostro interesse ora è che
questo fenomeno acquisisca visibilità e raggiunga un numero sempre
più alto di spettatori. 
Altrimenti, replicheremmo il meccanismo
proprio del teatro istituzionale, che decide cosa è buono e cosa no,
riducendo di fatto le possibilità espressive di molti artisti e
della scena in generale nonché le condizione concrete affinché
qualcosa di diverso possa accadere. 
Vedi, in Romania non esiste
ancora una legge che riconosca i teatri indipendenti: uno dei nostri
obiettivi è allora quello di raggiungere, attraverso l’aggregazione
di realtà differenti, la forza per chiedere una riforma della
situazione.  
Teatro Godot di Bucarest
Qual
è l’attitudine generale della critica nei confronti del teatro
indipendente?

È
ovvio che non parlo di tutti, ma per ciò che ho visto
l’atteggiamento più frequente è quello di discredito, come se si
trattasse di difendere gli interessi corporativistici del teatro
istituzionale. Questo per me non è fare critica: al contrario,
occorre che un critico aggiunga valore allo spettacolo, sottolineando
e mettendo in luce alcuni aspetti, invece che esprimere un giudizio,
spesso perentorio.

Ma devo
anche dire che, in generale, la critica ha poca influenza sia presso
gli artisti che presso il pubblico: quando assume determinati
atteggiamenti, viene percepita come un retaggio dell’epoca
sovietica, il cui pensiero non ha importanza per le persone che
vogliono semplicemente scoprire qualcosa di nuovo nel teatro.
 
 
In
cosa consiste, secondo te, il valore “politico” o “sociale”
del teatro?

In
un certo senso, fare teatro significa non mentire

Recitare vuol dire
sempre raccontare una verità, il più delle volte una verità che
non siamo normalmente disposti ad ammettere. Il che è esattamente
l’opposto che supportare un visione politica precisa e
propagandarla con mezzi artistici. 
Direi che il teatro e la politica
dovrebbero stare il più possibile lontani l’uno dall’altra, in
termini almeno di influenza diretta. 
Ciò non vuole dire che non
debbano essere trattati questioni sociali e non si debbano menzionare
temi politici, anzi. 
Occorre però che il teatro si ponga sempre in
posizione critica nei loro confronti.