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Risorse (in) umane: la rigenerazione della forza lavoro tedesca nei lager nazisti

di Armando
Lancellotti, carmillaonline, 22 Aprile 2016

Fabrice d’Almeida, Il
tempo degli assassini. I guardiani dei campi di concentramento e le
loro attività ricreative (1939-1945)
,
Ombre Corte, Verona, 2015, pp.175, € 16,00


«Giuro
che sarò fedele e obbedirò ad Adolf Hitler, capo del Reich e del
popolo tedesco, e che svolgerò coscientemente e disinteressatamente
i miei doveri di servizio». (p. 40)




Pronunciando queste parole uomini e
donne tedesche assumevano il ruolo di guardiani dei lager e
contemporaneamente anche un potere pressoché illimitato sui detenuti
intrappolati nel terribile sistema concentrazionario dei
KL
nazisti, i
Konzentrationslager.
E
proprio dei guardiani dei lager ci parla l’interessante ed
originale studio di Fabrice d’Almeida, storico dell’università
Paris II Panthéon-Assas, uscito nel 2011 con il titolo
Ressources
inhumaines. Les gardiens de camp de concentration et leurs loisirs

e tradotto e pubblicato in italiano da Ombre Corte nel 2015.


Un libro che si colloca all’interno
di quell’ambito di analisi e studi storiografici, sviluppatosi nel
corso degli ultimi decenni (si vedano a questo proposito i saggi di
Ch. Browning, D. J. Goldhagen usciti a metà degli anni ‘90 e di
altri), che affronta il tema dei lager e della Shoah concentrandosi
sui carnefici e non sulle vittime, sugli esecutori dello sterminio o
comunque, come in questo caso, sui guardiani dei campi e non sui
detenuti.




Una scelta di
argomento e di prospettiva che comporta – precisa l’autore – la
violazione di almeno due resistenze psicologico-morali e se la prima,
soffermarsi sugli assassini o sui loro collaboratori e non sulla
tragedia dei deportati, può più facilmente essere superata perché
rispondente all’intento di una lettura completa ed esaustiva del
fenomeno che tenga conto di tutte le parti coinvolte, la seconda,
tralasciare le violenze e la ferocia praticate dai sorveglianti dei
campi per studiare l’organizzazione del loro “lavoro” e
soprattutto del tempo libero e la predisposizione di spazi e azioni
di svago per questa risorsa (in)umana dell’industria
concentrazionaria del Terzo Reich, potrebbe sembrare provocatoria,
irrispettosa della memoria delle vittime e straniante.


Ma proprio lo studio degli aspetti
inizialmente e comprensibilmente considerati meno urgenti dalla
storiografia del Terzo Reich e della Shoah in particolare può
contribuire oggi ad una comprensione del fenomeno sempre più ampia,
ora che la letteratura sull’argomento, sui meccanismi del sistema
concentrazionario e del processo di sterminio nazisti può dirsi già
copiosa ed approfondita.
Pertanto la scelta di Fabrice d’Almeida
di considerare le attività ricreative dei guardiani dei lager, il
loro tempo libero e più in generale la politica tedesca di gestione
del personale delle unità speciali delle
SS
impiegate nei campi di concentramento e sterminio – le
Totenkopfverbände
– ci sembra non solo di grande interesse, ma oltremodo fertile sia
per quantità sia per qualità dei contributi euristici forniti, in
quanto se da un lato chiarisce aspetti certamente meno noti di altri
del funzionamento dei campi di internamento nazisti, dall’altro
conferma e rafforza alcune delle principali tesi interpretative di
questo capitolo della storia novecentesca.




E ci riferiamo non solo alla
arendtiana “banalità di un male” che risulta sempre più tale,
cioè banale, quando osserviamo ad esempio gli scatti dell’album
fotografico Höcker, custodito all’Holocaust Memorial Museum di
Washington dal 2007, che documentano momenti di svago e divertimento
di ufficiali e ausiliarie
SS
del campo di Auschwitz (e proprio dal ritrovamento di questo
peculiare materiale fotografico ha tratto spunto lo studio di
d’Almeida), ma ci riferiamo anche alle tesi di Raul Hilberg
riguardo al coinvolgimento “sistemico” dell’intera Germania
nazista nel processo di sterminio e alle riflessioni di Zygmunt
Bauman sulla “modernità” e razionalità industriale della
macchina concentrazionaria e di annientamento predisposta dal Terzo
Reich.

Ma proseguiamo con ordine: se
consideriamo le tre fotografie dell’album Höcker qui riportate
nella loro probabile successione esecutiva, vediamo un gruppo di una
dozzina di persone, di cui tre uomini, che evidentemente distesi e
spensierati si divertono, scherzano e si fanno fotografare, mentre
ridono, suonano e presumibilmente cantano. Insomma una normale,
ordinaria, in questo senso “banale”, scena di svago di gruppo.


Le risate sembrano fragorose e
prolungate; il divertimento è accompagnato dalle note di una
fisarmonica suonata dall’uomo sulla destra; la donna che gli sta
vicino assume ludiche pose svenevoli in tutti e tre gli scatti,
mentre, nell’ultimo dei tre, due amiche sulla sinistra si slanciano
di corsa e allegre verso il fotografo, che forse – proviamo ad
immaginare – le provoca e le motteggia. 

Ma se osservate
ripetutamente, queste immagini, nonostante la loro apparente
ordinarietà, provocano in noi un crescente disturbo; c’è qualcosa
di stonato, di sghembo che produce un effetto di spaesamento. E
l’effetto straniante è determinato non solo e non tanto dai lucidi
e neri stivali militari sotto le impeccabili uniformi da
SS
indossate dai tre uomini e da quelle di ausiliarie
SS
delle donne, quanto piuttosto dalla consapevolezza che il prato
attorno e la macchia scura di betulle sullo sfondo che incorniciano
questa altrimenti insignificante scena di svago si trovano ad
Auschwitz, dove i tre ufficiali e le ausiliarie
SS,
una volta terminato quel momento di riposante distrazione, torneranno
ad infierire brutalmente sui detenuti, seminando terrore e morte.



Una delle tesi più importanti
espresse da d’Almeida è quella secondo cui «i guardiani non sono
lo scarto delle formazioni militari, come hanno voluto far credere i
dirigenti perseguiti all’indomani della seconda guerra mondiale per
crimini contro l’umanità», ma sono parte di «un’istituzione
che si considera l’
élite
della società tedesca» (p. 12), soprattutto quando, dopo la “notte
dei lunghi coltelli” e il depotenziamento delle
SA,
organizzazione, gestione, controllo e sfruttamento dei lager vengono
assegnati alle
SS,
a quell’”ordine nero” che del nazionalsocialismo pretende di
incarnare l’essenza politica e razziale ed in particolare alle SS –
Totenkopfverbände,
le “unità testa di morto”.




Una élite
di custodi e sentinelle dell’ordine nazionalsocialista che è parte
costitutiva e consustanziale – è questa un’altra delle idee
portanti del ragionamento di d’Almeida – del progetto di
ingegneria sociale del Terzo Reich, che intende riorganizzare la
società sulla base di un darwinismo sociale, politico e razziale che
richiede un’eugenetica azione di isolamento ed eliminazione del
nemico, dell’inadatto. 

Ne
consegue che il ruolo dei sorveglianti dei campi è una tessera
fondamentale dell’intero mosaico sociale nazista ed è in relazione
integrante con altri apparati ed istituzioni del regime, in primo
luogo
«la polizia, che finirà
per essere inclusa nello stesso ministero […].
Il partito nazista,
naturalmente, che invia loro i mezzi e li colloca al centro della sua
dottrina. Le
SS,
di cui costituiscono una delle forze d’
élite.

Anche altri “corpi” hanno con
loro contatti a intervalli regolari, come quello degli impiegati
postali, dei ferrovieri, dei pompieri e soprattutto dei militari, che
proteggono da lontano le istallazioni. Si aggiungono a queste
amministrazioni dei partner economici, dal momento che le imprese
approfittano dello sfruttamento della mano d’opera raggruppata nei
campi» (p.11)



Alla realizzazione del progetto
nazista di ingegneria sociale, di cui la deportazione, la detenzione
e l’eliminazione dei nemici nei lager è la chiave di volta,
l’intera società tedesca, articolata in apparati ed istituzioni,
partecipa attivamente. 

Si tratta di un coinvolgimento sistemico che – come già aveva
sostenuto Raul Hilberg a partire dagli anni ’60 – non diminuisce,
parcellizzandola e distribuendola, la responsabilità delle singole
istituzioni, ma, al contrario, ne aumenta la somma totale.
 

E se il
darwinismo razziale fa da orizzonte di comprensione del progetto
sociale del nazismo, la metodologia e la logica della sua messa in
atto sono quelle burocratiche moderne – come dalla fine degli anni
’80 va dicendo Zygmunt Bauman – e nella fattispecie dei lager
quelle industriali fordiste.



Osserva infatti d’Almeida che negli
«anni precedenti e seguenti la prima guerra mondiale, il
taylorismo e il fordismo avevano portato a considerare in maniera
scientifica i rapporti fra il lavoro e le conseguenze che esso
produce sugli individui. Lo sviluppo delle teorie sul
tempo libero e la riduzione dell’orario lavorativo con
l’introduzione dei giorni festivi avevano incentivato la
riflessione sulle attività al di fuori degli uffici e delle
fabbriche. L’esercito stesso se n’era fatto portavoce, grazie al
sistema delle licenze intensamente presente anche durante la Grande
Guerra».
(p. 16)

Di questa ristrutturazione fordista
della società novecentesca, che nella massificata e massificante
Grande Guerra conosce un passaggio fondamentale,
l’industrializzazione operata dal nazismo della detenzione e, come
suo sviluppo ed esito, dello sterminio costituisce un ingranaggio
essenziale. 

 «Le
SS
contribuiscono alla modernizzazione della gestione delle
organizzazioni propria della produzione industriale e della
disciplina dei comportamenti».
(p.
17)


Pertanto, l’amara conseguenza tratta
dall’autore da questa premessa è che dal
«punto
di vista della storia dell’ingegneria sociale e della gestione
delle risorse umane, la svolta rappresentata dal genocidio degli
ebrei e degli zingari è comunque eccezionale e pone una quantità di
domande, che spesso sono state affrontate in prospettiva
psicologica».



Approccio quest’ultimo che d’Almeida
non intende praticare, preferendo un’osservazione e culturale e
materiale del fenomeno dei sorveglianti dei campi di concentramento.
Analisi che nell’ottavo ed ultimo capitolo
del libro (
Il secolo dei
guardiani
) si allarga ad
altri esempi novecenteschi del fenomeno concentrazionario, in
particolare a quello dei Gulag sovietici, muovendo dalla convinzione
che quella del guardiano del lager sia una figura essenzialmente
novecentesca, che trova poi nel totalitarismo il contesto ideale
della propria definizione.


Nell’organizzazione industriale e
fordista della repressione sociale per via concentrazionaria rientra
pertanto il “tempo libero”, quello che contribuisce alla
rigenerazione e alla maggior efficienza della forza lavoro.

 
«La vita delle guardiane e dei
guardiani doveva essere sufficientemente piacevole nel quotidiano,
affinché potessero attivare tutta la loro violenza in seno
all’istituzione concentrazionaria. Non dovevano soffrire a causa
dell’inattività o dell’ozio, quando lasciavano il loro luogo di
lavoro per il riposo, per quanto fosse breve. In questo senso il
nazismo è il primo esempio di gestione di
risorse
umane
». (p.19)
Ovviamente anche il salario gioca un
ruolo importante in un “rapporto di lavoro”, come dimostra –
osserva d’Almeida – il caso delle ausiliarie
SS,
delle guardiane, che vengono arruolate a partire dal 1938 per
garantire la sorveglianza soprattutto, ma non solo, delle
prigioniere. 

Il personale femminile viene formato, inquadrato
ideologicamente, in particolare nella scuola creata apposta nel campo
femminile di Ravensbrück dal 1940, ma – sostiene l’autore – a
differenza di quanto accade per i
«loro
omologhi maschi, la scelta di mettersi a servizio della politica
concentrazionaria non dipende, nel loro caso, da forti motivazioni
ideologiche»
(p. 40), quanto
piuttosto dal salario.
«La remunerazione di base
di una giovane guardiana è di 185
Reichsmark,
superiore di un terzo a quella di un’operaia non qualificata
impiegata nell’industria tessile, e con le indennità di servizio
può arrivare quasi a raddoppiarsi».
(p.
40)


Questo da un lato aiuta a capire
perché – come scrive lo storico – solo il 4% delle guardiane si
sia iscritto al partito e dall’altro ci sembra dimostri una volta
di più quanto sia complessa e problematica, sfaccettata e spesso
indecifrabile la questione del consenso ideologico all’interno di
un regime totalitario.
In questo caso, comunque, sono le logiche
del mercato della mano d’opera che contribuiscono a fare la
differenza, ad attrarre personale verso l’impiego nei campi di
concentramento e a integrare ed includere socialmente, come parte
della struttura economico-produttiva, l’inumanità della
segregazione concentrazionaria.



Nei capitoli dal terzo al sesto
d’Almeida prende poi in esame nel dettaglio le attività
dell’ultimo dei sei dipartimenti (
Abteilung
VI
) in cui venne articolata
l’organizzazione di tutti i campi, secondo il modello introdotto a
Dachau da Theodor Eicke, stretto collaboratore di Himmler; a loro
volta tutti i lager tedeschi rispondevano alla
IKL
– Inspektion der Konzentrationslager
,
con sede a Berlino dal 1934. 

È «l’Abteilung
VI
a
mettere a disposizione del personale gli strumenti per il suo
intrattenimento, al fine di mantenere la condizione di spirito
necessaria per l’adempimento dei servizi richiesti […].

Ottiene le sue risorse dai ministeri
della Propaganda e dell’Educazione popolare, diretti da Joseph
Goebbels, e, dal 1940 al 1945, diventerà lo strumento indispensabile
nell’attuazione dei principi di gestione delle risorse umane, nel
periodo in cui l’esplosione della violenza nei campi va verso il
suo apogeo». (p. 32)



E così apprendiamo, per fare alcuni
esempi, che per quanto riguarda la vita sessuale, secondo d’Almeida
è doveroso abbandonare lo stereotipo, perché non supportato da dati
ed elementi probanti sufficienti, di una sfrenata attività sessuale
attribuita al personale
SS
di sorveglianza nei campi, così come quello di una sessualità
disturbata, spesso attribuita agli ufficiali di più alto grado. 

Secondo lo studioso francese si tratta di un cliché
sorto dopo la guerra
«allo
scopo di stigmatizzare la mostruosità dei carnefici – come se
fosse stato necessario aggiungere ai loro crimini comportamenti che
oltrepassavano il senso comune»
.

Piuttosto la sessualità del personale tedesco dei campi era
regolamentata dai divieti conseguenti alle leggi razziali e di difesa
del sangue tedesco:
«nessuna
relazione omosessuale, nessun rapporto interrazziale, nessun contatto
intimo tra detenuti e sorveglianti. Nei fatti, i comportamenti sono
più variegati».
(p. 66)



Di certo fu incoraggiato il ricorso al
bordello e ne furono aperti alcuni appositamente per il personale dei
campi.
«Contrariamente alle
case chiuse destinate ai lavoratori forzati, situate nell’area dei
rispettivi campi e poste sotto la sorveglianza dei guardiani, come
nel caso di Buchenwald, pare che quelle destinate al personale
fossero poste al di fuori dei reticolati. Ad Auschwitz, per esempio,
le
SS
potevano recarsi in centro città due giorni a settimana, tra le 17 e
le 23, quando era loro riservato un bordello che, altrimenti, era
frequentato da cittadini tedeschi e, in particolare, dai militari
della Wehrmacht».
(p. 71)

Proseguendo, ci viene detto che uno
dei modi di trascorrere il tempo libero preferiti consisteva nel
mangiare e bere insieme, attività ricreativa che veniva incentivata
dalle autorità, dal momento che poteva cementare lo spirito di
gruppo ed il cameratismo. 

Ma anche l’ascolto di musica
attraverso l’invio ai diversi campi di un ricco materiale
discografico fu utilizzato come mezzo di divertimento e distrazione.
Molto
apprezzate e richieste erano le radio, in linea con i costumi e le
abitudini dei tedeschi, essendo dagli anni ’30 la distribuzione di
apparecchi radio particolarmente capillare in Germania. 

Ma non
mancavano naturalmente le carte da gioco, i giochi di società, i
giornali e le riviste e le librerie, i cui cataloghi, in larga parte
uguali in tutti i lager, da d’Almeida vengono attentamente
spulciati, dal momento che in questo caso alla funzione di svago si
aggiungeva quella di formazione ed inquadramento politico ideologico.

A tutto ciò, si aggiungevano, infine,
spettacoli, attività e gare sportive, insomma un interno inventario
di pratiche ludiche e ricreative del tutto ordinarie e comuni, se non
fosse che per nulla ordinario e comune era il contesto in cui tutto
ciò accadeva.
Pertanto, scrive d’Almeida proprio
nelle ultime righe del suo lavoro, «la conclusione che si impone
è racchiusa in una frase. Nei campi di concentramento e di
sterminio, gli esecutori non hanno solo massacrato donne e bambini:
essi hanno anche ammazzato il tempo».
(p. 162)