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Il 90% delle condanne a morte sono avvenute in tre paesi.

di Ishaan Tharoor, washingtonpost, 07 Aprile 2016.


Lo
dice, tra le altre cose, il rapporto annuale di Amnesty
International.

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Nel 2015 sono
state eseguite le condanne a morte di almeno 1.634 persone nel
mondo, secondo i dati annuali di Amnesty International
pubblicati martedì 5 aprile: è il numero più alto mai registrato
dall’organizzazione dal 1989, e circa il cinquanta per cento più
alto rispetto al 2014. Stando al rapporto, quasi
il 90 per cento delle condanne a morte eseguite nel 2015 sono
avvenute in tre paesi: Iran, Pakistan e Arabia Saudita. 

Le
cifre, però, non comprendono le condanne a morte eseguite in
Cina: dal 2009 infatti Amnesty International non ha più tentato di
raccogliere dati sulle esecuzioni in Cina, viste la difficoltà
e le limitazioni a reperire informazioni affidabili. 

Secondo i
ricercatori è probabile che il numero annuale di condanne a morte
eseguite in Cina sia nell’ordine delle migliaia, cosa che
ne farebbe il paese con più esecuzioni al mondo.

http://www.ilpost.it/wp-content/uploads/2016/04/amnesty.jpg


Il
segretario generale di Amnesty International Salil Shetty
ha detto in
un comunicato che il numero delle persone giustiziate nel mondo non
era così alto da 25 anni a questa parte. «Iran, Pakistan e
Arabia Saudita hanno giustiziato un numero di persone senza
precedenti, spesso dopo processi iniqui. Questo massacro deve
finire», ha detto Shetty, sottolineando come solo una minoranza di
stati nel mondo applichi ancora per legge la pena di morte. Tra
questi, gli Stati Uniti spiccano per essere il solo paese nel
continente americano ad aver eseguito condanne a morte nel 2015,
posizionandosi con 28 esecuzioni al quarto posto nella classifica di
Amnesty dopo Iran, Pakistan e Arabia Saudita.

Di seguito alcuni dettagli sui tre
paesi tratti dal comunicato stampa di Amnesty International:

Il Pakistan
ha proseguito l’ondata di esecuzioni iniziata nel dicembre
2014 con l’abolizione di una moratoria sull’applicazione della
pena di morte per i civili. 

L’anno scorso nel paese sono state
giustiziate oltre 320 persone, il numero più alto mai registrato  da
Amnesty International in Pakistan.

L’Iran
ha giustiziato almeno 977 persone nel 2015, contro le 743 dell’anno
precedente, la maggior parte delle quali per reati legati al traffico
di droga. 

L’Iran, in aperta violazione del diritto
internazionale, è anche uno degli ultimi paesi rimasti al mondo a
giustiziare minorenni: nel 2015 nel paese sono state giustiziate
almeno quattro persone che avevano meno di 18 anni all’epoca del
reato per cui sono state condannate.

L’anno scorso in Arabia
Saudita
sono state
giustiziate almeno 158 persone, con un aumento del 76 per cento
rispetto al 2014. 

La maggior parte dei condannati a morte sono stati
decapitati, ma le autorità saudite hanno usato anche la fucilazione
e in alcuni casi i cadaveri dei condannati uccisi sono stati esposti
in pubblico.

L’Iran e l’Arabia Saudita sono
avversari in Medio Oriente: il primo è uno stato teocratico sciita,
mentre il secondo è un regno che si considera il custode dell’Islam
sunnita. 

A gennaio l’esecuzione di un importante membro religioso
sciita in Arabia Saudita ha provocato una pericolosa
crisi politica
tra i due paesi, e l’ambasciata saudita nella
capitale iraniana Teheran è stata addirittura presa d’assalto da
dei manifestanti. 

Il Pakistan, invece, ha reagito a un terribile
attacco terroristico a Peshawar nel 2014 tornando ad applicare la
pena di morte, che era stata sospesa in via ufficiosa. 

Le pene di
morte applicate da allora, tuttavia, non hanno coinvolto più di
tanto condannati accusati di reati legati al terrorismo, secondo
Champa Patel dell’ufficio per l’Asia meridionale di Amnesty
International. 

«In un periodo in cui la maggior parte dei paesi ha
abolito la pena di morte, il fatto che il Pakistan abbia deciso di
andare con grande velocità nella direzione opposta è preoccupante»,
ha detto Patel, «la pena di morte rappresenta sempre una violazione
dei diritti, ma in Pakistan la sua applicazione è ancora più
allarmante, vista le serie preoccupazioni sull’equità dei
processi, che riguardano anche l’accesso insufficiente agli
avvocati e la diffusione delle torture da parte della polizia per
estorcere “confessioni”».