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Criminalità immaginate

di Lavoro Culturale, 25 Aprile 2016.






Mafia come “antistato”, mafia come
“subcultura”, come “emergenza”. 

Sono soltanto alcuni degli
stereotipi che circondano una delle questioni pubbliche più
dibattute degli ultimi decenni. 

L’elenco dei cliché e delle
metafore evocative potrebbe proseguire a lungo: dalla mafia come
degenerazione di costumi politici clientelari e corrotti alla mafia
come corpo patogeno, esterno, che infetta tessuti economici e
politici sani. Per mettere in discussione queste rappresentazioni non
è sufficiente sostenere le ragioni di un discorso legalitario, volto
alla mera repressione, oggi sempre più pervasivo. 

Occorre innanzitutto ricostruire i processi attraverso i quali
sono tracciati i confini del fenomeno mafioso in Italia e nel mondo.
Dalla sua ricostruzione giudiziaria, che permea il dibattito
pubblico, alimentando la diffusa credenza che vorrebbe i gruppi
mafiosi al centro di dinamiche di illegalità che appaiono invece
straordinariamente complesse, alla sua rappresentazione mediatica,
che contribuisce alla costante produzione di simboli in grado di
disegnare l’orizzonte di senso nel quale gli stessi mafiosi
inscrivono le proprie condotte.
 

In questo quadro, il focus si
propone come uno spazio di riflessione sul potere mafioso, chiamando
in causa il ruolo svolto dalla dimensione immaginaria nella
costruzione sociale di un fenomeno che si definisce all’incrocio
tra interpretazione scientifica, rappresentazione pubblica e
costruzione giuridica.