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Come muore il diritto di asilo

di Fulvio Vassallo, Comune-info, 25 Aprile 2016.

Il diritto di asilo è strettamente
connesso al livello di democrazia che si garantisce in uno stato, ed
è strumento per il riconoscimento dei diritti fondamentali della
persona, quando si è costretti ad abbandonare il paese di origine
non per scelta ma per sfuggire a una persecuzione individuale, a una
situazione di violenza generalizzata, a una negazione sostanziale
delle libertà democratiche. 

Più di recente, alle
tradizionali cause delle migrazioni forzate si sono aggiunti i
disastri climatici
, con
la nuova categoria di profughi ambientali, e l’aumento dei migranti
costretti a lasciare il loro paese per la totale mancanza di mezzi di
sussistenza (leggi anche Human
rights of refugee and migrant women and girls need to be better
protected
).

Il numero dei migranti
intenzionati a chiedere asilo in Europa è drasticamente aumentato
negli ultimi due anni
,
soprattutto per l’afflusso massiccio di sfollati siriani, ma anche
per il diffondersi di generali condizioni di insicurezza in molti
paesi africani e asiatici, in particolare in Eritrea, in Sudan, in
Gambia, in Nigeria, e già da tempo in Afghanistan, Pakistan ed Iraq. Con l’aumento delle
partenze è anche aumentato il numero delle vittime nei viaggi della
disperazione, mai tanto numerose come nell’ultimo anno.

L’Unione europea ha risposto
alle stragi del Mediterraneo
,
le più grandi il 3 novembre del 2013
davanti Lampedusa
e il 18
aprile del 2015 nel Canale di Sicilia
, con migliaia di morti, con
un progressivo inasprimento
delle regole e delle prassi applicative in materia di asilo e
protezione internazionale.

Mentre si chiudevano tutte le vie
legali di ingresso per lavoro, le politiche europee hanno sottoposto
a restrizioni sempre più severe anche l’accesso dei richiedenti
asilo, continuando a mantenere l’iniquo Regolamento Dublino, che ha
esasperato il problema della prima identificazione attraverso il
prelievo delle impronte
digitali
.

Nel corso del semestre di
presidenza dell’Ue nel 2014 l’Italia ha lanciato il Processo di
Khartoum
(The
‘Khartoum Process’: beefing up borders in east Africa
) che
nel solco del processo di Rabat e degli Accordi di Cotonou tendeva
a trasferire sui paesi terzi, di transito e di origine
,
il compito di “difendere” le frontiere europee di fronte ad un
crescente afflusso di migranti, aumentando i controlli anche
attraverso l’agenzia Frontex, e realizzando operazioni di
respingimento verso i paesi di origine.

A partire dal 20 marzo 2016 è
entrato in vigore l’accordo tra Unione europea e Turchia, che ha
trasformato in migranti “illegali” da espellere dall’area
Schengen anche potenziali richiedenti asilo
,
magari con famiglia e bambini piccoli. 

Da allora anche i migranti
siriani arrivati in Grecia dalla Turchia sono stati considerati
“illegali”. Per non parlare degli afghani e dei pakistani. 

Dal
4 aprile sono cominciate le operazioni di respingimento in Turchia

e si ha già notizia di respingimenti “di riflesso” dalla Turchia
verso l’Afghanistan. Particolarmente
a rischio i curdi di nazionalità turca

che rischiano di essere riconsegnati a un paese nel quale troveranno
carcere e torture senza fine.

Nei documenti
europei approvati dal Consiglio su proposta della Commissione, con
procedure di comitato, al di fuori delle regole stabilite nei
trattati per queste materie, che richiederebbero atti di natura
legislativa con la codecisione del parlamento europeo [1],
piuttosto che garantire la rilocazione uniforme dei richiedenti
asilo, il superamento del Regolamento Dublino, e l’omogeneità
delle procedure per il riconoscimento degli status di protezione, si
è preferito tracciare la distinzione tra “migranti economici” e
potenziali richiedenti asilo, e tra questi quella di “persone con
un particolare bisogno di protezione”
.

Non sono state riconosciute vie di
ingresso legale, se non a poche centinaia di persone, generalmente su
iniziativa di enti religiosi o di organizzazioni umanitarie. 

Rispetto
a tutti gli altri
l’Ue
ha girato le spalle
,
negando visti di ingresso umanitario e procedure di “resettlement
che avrebbero potuto trasferire legalmente in Europa persone
ingabbiate nei campi profughi più esposti a violenze ed abusi.

Queste politiche europee hanno negato
in sostanza il diritto di asilo ed adesso si stanno traducendo in una
valanga di dinieghi da
parte delle Commissioni territoriali

che decidono sulle richieste di protezione internazionale, e nella
chiusura di tutti i canali di passaggio verso l’Europa e tra i
diversi stati europei, con grande vantaggio delle organizzazioni
criminali che stanno aumentando i loro profitti e la loro capacità
di ricatto (statistiche).

Le recenti decisioni dell’Unione
Europea non tengono in nessun conto quella sentenza di condanna della
Corte Europea dei diritti dell’Uomo contro stati che non
garantiscono alle vittime una effettiva protezione contro la tratta e
lo sfruttamento.


Le proposte rivolte all’Ue dal
governo Renzi, denominate in modo criptico come
Migration
Compact
, mettono al
centro gli accordi con i paesi terzi, la stabilizzazione
della Libia
e propongono
un uso distorto della
cooperazione internazionale
,
che dovrebbe essere condizionata ad una collaborazione nelle
politiche di blocco delle partenze e di riammissione di coloro che,
da quei paesi, ritenuti al pari della Turchia come paesi terzi
sicuri, tentano di entrare nel territorio degli stati europei. 

I
richiami all’apertura di canali legali di ingresso per lavoro,
limitati ai migranti altamente qualificati, appaiono una beffa dopo
l’abolizione delle quote annuali di ingresso che negli anni, fino
al 2012, avevano consentito una regolarizzazione successiva di
immigrati già residenti da tempo in Italia, dopo essere entrati o
essere rimasti senza documenti validi.

Le misure previste dal Migration
Compact ricalcano il modello degli accordi che l’Italia di
Berlusconi e Maroni stipularono nel 2009
con la Libia di Gheddafi, sul principio della “condizionalità
migratoria” nei rapporti con i paesi terzi, che il governo Sarkozy
aveva proposto nel 2008 all’Unione Europea. Si trattava in sostanza di garantire
congrui finanziamenti e forniture tecniche e militari ai paesi di
transito per contrastare le partenze dei “clandestini” con la
collaborazione attiva da parte delle polizie di questi paesi, anche
se poi nessuno garantiva il rispetto dei diritti umani delle persone
che venivano riprese in mare e ricondotte nei porti di partenza.
 

Il
modello Libia viene ripreso anche recentemente, malgrado le condanne
arrivate dalla Corte Europea dei diritti dell’Uomo
. La Corte Europea dei diritti
dell’Uomo ha condannato in diverse occasioni paesi come l’Italia
che hanno effettuato respingimenti individuali, ed altre volte
collettivi, verso paesi non appartenenti all’Unione Europea che non
garantivano il rispetto dei diritti umani

Esemplari in questo senso le sentenze sui casi
Hirsi
contro Italia e Sharifi
contro Italia e Grecia. L’articolo 3 della Convenzione
Europea dei diritti dell’Uomo, che vieta, oltre alla tortura, i
trattamenti inumani o degradanti, e il divieto di espulsioni
collettive, sancito dall’articolo 4 del Quarto Protocollo allegato
alla Cedu, divieti ribaditi dagli articoli 4 e 19 della Carta dei
diritti fondamentali dell’Unione Europea, hanno garantito in casi
isolati quelle tutele che malgrado le legislazioni nazionali, e le
Direttive europee, le prassi applicate dalle forze di polizia su
indirizzo politico negavano con frequenza crescente.

La riapertura del caso Khlaifia, sul
quale dovrà pronunciarsi a breve la Grand Chambre della Corte di
Strasburgo, dopo la condanna dell’Italia da parte di una sezione
della stessa Corte Europea dei diritti dell’Uomo, apre adesso
preoccupanti prospettive di limitazione della tutela dei diritti
fondamentali dei migranti sottoposti a procedure di espulsione e di
respingimento. L’Italia che ricorre contro una condanna per
l’espulsione collettiva di
tre
tunisini
fermati a
Lampedusa nel 2011, è la stessa Italia che viene condannata per il
sequestro e la extraordinary
rendition
di un sospetto
terrorista in Egitto.

Si assiste dunque a una preoccupante
restrizione delle possibilità di riconoscimento del diritto di asilo
in Europa, anche attraverso la introduzione surrettizia di una “lista
di paesi terzi sicuri”, che non arriva a diventare una misura
legislativa vincolante per gli stati, ma diventa criterio generale di
valutazione delle richieste di asilo, sotto l’impulso dell‘Easo,
l’Ufficio europeo che dovrebbe supportare i paesi in difficoltà
con le richieste di asilo, e che invece si muove nell’ottica di
imporre criteri sempre più restrittivi nell’esame delle domande di
asilo (Rapporto
Amnesty
).

Gli elementi costitutivi della
normativa dell’Unione Europea rischiano così di essere utilizzati
in senso sempre più restrittivo, e gli accordi con i paesi terzi
rischiano di limitare ulteriormente le possibilità di accesso agli
stati europei nei quali si intende presentare una richiesta di asilo,
lasciando un carico crescente di arrivi sui paesi più esterni, dai
quali, con la rilocazione in Europa non si riesce a trasferire più
di qualche centinaio di richiedenti asilo.

I principi affermati dai giudici
nazionali ed europei, dunque nell’esercizio della giurisdizione,
consentono di valutare la portata delle gravi violazioni che l’Unione
Europea e i singoli stati membri stanno commettendo stipulando
accordi di riammissione e intese operative di polizia con i paesi
terzi, come si è fatto con la Turchia, per fermare le partenze di
potenziali richiedenti asilo.

Riconoscimento di protezione
sussidiaria ad un cittadino del Gambia
appartenente ad un partito di opposizione. Per l’Unione Europea un
“paese terzo sicuro”.

Anche la Nigeria
viene ritenuta “paese terzo sicuro”. 

La Corte di Cassazione
blocca un respingimento, ma in tanti altri casi non è possibile
garantire effettività ai diritti di difesa, soltanto perché le
persone espulse o respinte non riescono a fare valere i loro diritti
in giudizio prima dell’esecuzione dell’allontanamento forzato
sotto scorta di polizia. Dove è finito lo stato di diritto?

Sono
argomentazioni utili per estendere la tutela dei richiedenti asilo
denegati nel nostro paese dopo mesi o anni di attese defatiganti, ma
possono servire anche per preparare ricorsi contro le decisioni di
respingimento o di trattenimento amministrativo, adottate nei
confronti di persone che in base alle Direttive ed ai Regolamenti
europei dovrebbero vedere riconosciuto il loro diritto alla
protezione in territorio europeo.

Di certo, di fronte alle decisioni di
singoli paesi che, come
l’Austria,
hanno dichiarato di mettere un tetto massimo annuale alle richieste
di asilo, si registra una grave violazione della Convenzione di
Ginevra del 1951 e delle Direttive europee, e della stessa Carta
europea dei diritti fondamentali, che non contemplano limiti numerici
per l’ingresso di persone che richiedono protezione internazionale
(Riforma
del sistema europeo per l’asilo: le proposte della Commissione Ue
).

Appare anche in contrasto con la
giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’Uomo, che vieta
respingimenti diretti o di riflesso verso paesi che non riconoscono i
diritti fondamentali della persona, l’accordo tra Unione Europea e
Turchia e gli altri che su quel modello potrebbero seguire, come si
ipotizza nel
Migration
Compact
proposto dal
governo Renzi all’Unione Europea.