San Romero de America visto da Geraldina Colotti.
di Valerio
Cuccaroni, carmillaonline, 26 Marzo 2016
«Un libro su monsignor Romero?
E perché?
Perché a firma di una ex brigatista
che non rinnega il suo passato, di una comunista che non prende con
le pinze la parola, pur senza farsene scudo?»
Con questa domanda
inizia il saggio Oscar Arnulfo Romero, beato fra i poveri, a
cura di Geraldina Colotti (Edizioni Clichy, 2015, pp. 144, €
7,00).
Le risposte possono essere almeno tre:
la prima, data dalla stessa autrice, è poetica; un’altra,
ricavabile dalla sua analisi, è politica; nella terza si intrecciano
ragioni biografiche e geopolitiche. Innanzitutto, Colotti,
giornalista del “manifesto” e direttora del Diplò italiano,
considera Romero «una figura complessa, fragile e visionaria come i
poeti e i profeti, capace di spingersi al limite» e lei ha «sempre
avuto interesse – politico, professionale e letterario – per chi
ha frequentato il limite: assumendolo, oltrepassandolo o sentendone
la presenza come una ferita aperta».
L’arcivescovo Romero non ha
realmente superato «il limite del ruolo e del dogma», ma lo ha
«fortemente» interrogato: «nei suoi discorsi sulla necessità
della violenza per difendersi dalla sopraffazione; nel suo rapporto
con le organizzazioni popolari che porteranno alla nascita del Fronte
di Liberazione Nazionale Farabundo Martí; nelle denunce contro i
responsabili della repressione, che gli costeranno la vita.
Chi ha
coscienza del limite, sa quel che lo aspetta: “La missione del
profeta è terribile” ha scritto Romero “deve parlare anche
quando sa che non lo ascoltano”».
In queste parole è chiara la ragione
politica che ha spinto Colotti a interrogarsi sulla vita e le opere
di un religioso: la sua scelta “partigiana” di sostenere gli
interessi della classe subalterna, a costo della propria vita.
In questo senso Romero può essere
considerato un compagno, anche se «la religione è l’oppio dei
popoli»? La realtà batte l’ideologia, o meglio la realtà della
pratica include dialetticamente uno dei poli dell’ideologia, per
cui la scelta supera le barriere ideologiche? No, allora come oggi,
in campo restano due opzioni distinte: «l’opzione religiosa,
salvifica e trascendente, e quella di classe, concreta, storica e
poco rassicurante».
Ma dal percorso di Romero emerge la drammatica inaggirabilità
della «scelta, l’obbligo della scelta, quando la realtà ti chiama
alla coerenza coi principi. La scelta e il peso di decidere anche per
gli altri.»
Un religioso al servizio dei poveri e
degli esclusi, per un verso, è un compagno di strada, dunque, ma,
per l’altro verso, in chiave marxiana, resta uno spacciatore di
oppio?
Il contesto
storico-sociale in cui predicò Romero era il Salvador della guerra
civile e, soprattutto da un certo momento in poi, l’arcivescovo
non elargì consolatorie teorie sulla vita ultraterrena, ma denunciò
nelle sue omelie gli oppressori del popolo.
E, il giorno prima di morire, il 24 marzo 1980, esortò
addirittura i militari salvadoregni a disertare, piuttosto che
uccidere i fratelli contadini.
Già nel suo libro Talpe
a Caracas, in cui
descriveva la rivoluzione bolivariana del Venezuela, Colotti era
stata costretta ad affrontare la questione tutta sudamericana di un
sincretismo rivoluzionario che adora, in moderni affreschi, il
trittico Cristo, Che Guevara e Chavez.
Negli ultimi anni, la
scrittrice-giornalista ha soggiornato a lungo in Venezuela e in
Sudamerica, fondendo biografia e geopolitica alla ricerca del
socialismo del XXI secolo.
Con lo stesso sguardo, affronta il tema di
questo nuovo saggio, e rileva: «Contro le piccole patrie xenofobe,
si fa strada un bisogno di universalismo, che la Chiesa vuole
colmare, “appropriandosi” della questione sociale: fino a
convocare centri sociali e organizzazioni popolari, interrogando dal
basso la legalità delle mani pulite, che uccide lasciandoti senza
“casa, terra e lavoro” (tierra,
trabajo y techo, le
“tre T” di Bergoglio)».
Perché si guarda
oggi alla Chiesa, istituzione da sempre alleata dei poteri dominanti?
Perché, dopo la caduta del campo socialista, «sacrificarsi
per un’idea, per un progetto comune che richiede la messa fra
parentesi dei progetti individuali» è «quasi una bestemmia, oggi,
senza il guizzo salvifico della religione. Almeno avessimo profeti
incompatibili con la melma imperante, capaci di trasmettere il fuoco
dell’utopia».
E dunque? «E
dunque, Romero.»
Colotti apre il suo saggio con una
biografia essenziale del «vescovo rosso», che riprende in seguito
per sottolineare che dalle posizioni conservatrici dei primi anni
’70, in cui l’apostolato al servizio dei poveri di Romero è
concepito per togliere argomenti al comunismo e alle «cristologie
inneggianti alla rivoluzione, portatrici di odio», come sosteneva
lui stesso.
L’arcivescovo di San Salvador cambia posizione nel 1977,
quando viene assassinato dal regime salvadoregno il suo amico
gesuita, compagno dei poveri, Rutilio Grande.
Da quel momento in poi, come documentano estratti di
omelie e foto, nella terza parte del volume, si moltiplicano le
denunce di Romero nei confronti della repressione del regime
salvadoregno, sostenuto dalla Cia, fino a giustificare, a un mese
dalla morte, l’uso della violenza, a fini insurrezionali: «Quando
una dittatura lede gravemente i diritti umani e il bene comune della
nazione – sosteneva Romero il 24 febbraio 1980 – ,quando si rende
insopportabile e si chiudono i canali del dialogo, della
comprensione, della razionalità, quando questo succede, allora la
Chiesa parla del legittimo diritto alla violenza insurrezionale […]
del diritto all’insurrezione, che la Chiesa ammette quando si sono
esauriti tutti i mezzi pacifici».
Un’opzione, questa della violenza
insurrezionale, che Colotti ha praticato negli anni ’70 e ’80.
E che non ha mai rinnegato