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Lasciare la città per un borgo medievale o una cascina contadina.

Redazione Italia, ilfattoquotidiano, 23 Marzo 2016

Per qualcuno è un viaggio di sola andata lungo una strada di
campagna mai percorsa prima. Per altri, invece, è il ritorno a una
quotidianità che non conosce traffico né frenesia, ma ha il sapore
dell’infanzia e della genuinità. Ciò che accomuna tutti è la
voglia di cambiare. 

La propria vita, soprattutto. Lasciarsi la città
alle spalle per traslocare in un antico borgo medievale da 200
abitanti, in un casolare sulle Alpi settentrionali, in una cascina
contadina dell’anteguerra, legata al mondo moderno solo da una
strada sterrata. 

Sono gli uomini e le donne che ritornano ai luoghi
abbandonati d’Italia, per costruire il proprio futuro sulle
professioni del passato. Un fenomeno in controtendenza rispetto
all’urbanesimo anni 50, quando le campagne si svuotavano direzione
città in cerca di un posto fisso nelle grandi fabbriche. 

“Ma che
contribuisce al ripopolamento di quelle aree a rischio
desertificazione demografica”, spiega Silvia Passerini, tra i
fondatori della Rete del Ritorno

“E’ la dimostrazione che il
futuro si trova anche nelle tradizioni”.

SANTO STEFANIO DI SESSANIO (117 abitanti rimasti, in provincia dell’AQUILA) - Negli ultimi anni qualche imprenditore straniero si è innamorato delle città fantasma italiane. Uno di questi è lo svedese Daniel Kihlgren che si è messo in testa di far rivivere SANTO STEFANO DI SESSANIO, in Abruzzo, acquistandone una parte e realizzando un “ALBERGO DIFFUSO” nelle case prima abbandonate

Per Roberta Capanna, l’avvenire è nelle sue piante officinali. 
Fino a qualche anno fa lavorava per una società di servizi, in
Liguria, si occupava di personale e le sue giornate somigliavano a
quelle di chiunque altro. 

“Era tutto lavoro, e finiva sempre che si
veniva risucchiati nel vortice frenetico che è la quotidianità. Te
la porti a casa, e non c’è più tempo per fare altro”.


Poi una
passeggiata in Valle Grana, in provincia di Cuneo, e Roberta vede per
la prima volta Borgata Crovero. Sulla mappa è un’area verde tra
alberi di faggio e piante di castagno, senza riferimenti, se non una
sequenza di coordinate. 

“Il ritmo della mia vita è cambiato
completamente. Lavoro seguendo le stagioni, più che l’orologio, e
la fretta è una fretta diversa, scandita dal ciclo solare. In città
ci affanniamo: ma per cosa?”. 

Una delle sue tre figlie oggi lavora
con lei, in Borgata, ma le altre due sono a fare i conti con i
problemi della classe 1980, cioè crisi, disoccupazione, precariato. 

“Ci sono poche prospettive, molta insoddisfazione, e quando le
guardo penso che forse è qui, dove sono io, che si nasconde la
speranza per il futuro. Nel ritorno alla natura, alle nostre
origini”.




Una scelta simile a quella fatta da Alain Lanot e da sua moglie
Viviana Vignandel
, che 10 anni fa hanno abbandonato l’industriosa
Milano in favore di Fortunago, nell’Oltrepò pavese, il borgo
da 380 abitanti immortalato dal Capitale Umano di Paolo Virzì. 

“Per
tanto tempo abbiamo pensato alla carriera, vivevamo vicino
all’Idroscalo, ci svegliavamo presto e tornavamo a casa tardi”. 

Poi, la coppia ha iniziato a lavorare un piccolo orto a Cascina Santa
Brera, nel milanese, e il profumo della terra appena smossa Alain e
Viviana non sono più riusciti a dimenticarlo. Così hanno comprato 4
ettari di terreno all’asta, Viviana produce ottime marmellate
artigianali, coltivano la terra e assieme ai due figli stanno
costruendo a mano la loro casa, fatta completamente in paglia,
argilla e legno. 

“E’ stato un bel salto nel vuoto, lasciare tutto
per trasferirci qui – sorride Viviana – prima la mia identità
era determinata dalla mia professione, e mio marito lavorava per
Citroen, sempre in viaggio. Ma oggi guardo le colline, oltre la
finestra, e sento che è questo è il luogo dove voglio crescere i
miei bambini. Certo, c’è voluto tanto lavoro. E tanto coraggio.
Non è stato facile disimparare a correre per godere di ciò che ci
circonda. Ma è un’esperienza nuova ogni giorno. E se nessuno
tornasse a vivere in questi luoghi a rischio abbandono, finirebbero
per scomparire in pochi anni, assieme alle loro tradizioni”.

ROSCIGNO, paese in abbandono in provincia di Salerno

Eugenio Barbieri, invece, era ricercatore e professore a contratto
all’università di Pavia prima di decidere di traslocare nel
casolare costruito dal bisnonno per diventare viticoltore. 

La sua
storia, più che un ritorno, è un viaggio solo andata, che sa molto
di serendipità. 

“A 28 anni, ingegnere e dottorando, partii per gli
Stati Uniti, e lì fui ospite di un professore, che viveva in una
casa in legno autocostruita, in uno spazio verde incolto. Vedere un
uomo di cultura capace di fabbricare da sé ciò di cui aveva bisogno
mi colpì molto, e mi fece capire che alla mia vita mancava qualcosa.
Così l’ho cambiata”. 

Da Pavia si è spostato a Rivanazzano
Terme, al confine col Piemonte, e le sue giornate seguono il ciclo
della terra. “E’ come scoprire che c’è un altro mondo oltre le
mura cittadine. I contadini un tempo godevano di ciò che avevano, e
taravano i propri bisogni sulla base di ciò che il mondo aveva fa
offrire. Io vivo così, e sono sempre soddisfatto”. 

Per molti,
riflette Eugenio, “il ritorno ai luoghi abbandonati è anche una
forma di contestazione rispetto a una società – intesa come modo
di vivere – in cui non si riconoscono più. Per me l’input è
stato diverso, ma la necessità che tanti sentono di costruirsi una
realtà nuova, al di là di quella urbana, fa riflettere”.



Molti giovani, oggi, lo cercano all’estero quel futuro che in
Italia sentono negato. 

“Finiti gli studi provano quasi l’obbligo
di andare via. Non più al Nord, come accadeva in passato, ma
all’estero. È un peccato, perché per evitare che la nostra storia
scompaia serve che le nuove generazioni rimangano”. 

Quella cascina abbandonata lungo la Martesana

Marianna
Cardone
, 40 anni tra pochi giorni, pugliese di nascita, quella
decisione l’ha presa 15 anni fa, quando si è laureata
all’Università Bocconi di Milano.

“Non è stato facile, perché
a 20 anni vuoi essere libera dalla famiglia, che al Sud è anche una
rigida gerarchia. Dovevo decidere se tornare a fare la figlia, o se
tentare la mia strada. Poi però mi sono resa conto che riportare a
casa ciò che avevo imparato in quegli anni in città lo dovevo sia
alla mia famiglia, sia alla mia terra”. 

Da tre generazioni i
Cardone producono vino in Valle d’Itria, a Locorotondo, “e c’è
una tradizione che voglio preservare”. La storia di una famiglia
che poi è quella di una comunità, con i bambini che giocano in
cortile mentre i grandi lavorano l’uva. “E’ un patrimonio da
custodire gelosamente, nostro italiano. E ai ragazzi dico ‘non
arrendiamoci, rimbocchiamoci le maniche’”.