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La stranezza che ho nella testa. Intervista a Pamuk.

di
Francesca Borrellileparoleelecose, 29 Marzo 2016
La stranezza che ho nella testa

Da sempre alla ricerca di un
equilibrio tra l’ingenuo e il sentimentale, Orhan Pamuk oscilla tra
le romantiche tentazioni di quella scrittura che Schiller fa
discendere direttamente dal dettato della natura, e le moderne
angosce derivate dalla consapevolezza dello scarto che separa i
propri mezzi espressivi da ciò che aspira a rappresentare. 

Ma, per
la verità, l’indole dello scrittore turco sembra sbilanciarlo,
ancora e forse felicemente, verso una spontanea e appagata
fusionalità di paesaggi mentali e romanzeschi, dove trionfano i
sentimenti e arretra l’intelletto. 

Proprio questo stato della
mente, questa nostalgica inclinazione, questa evocatività mai sazia
di echi del passato è quanto rinchiude il titolo del suo ultimo
romanzo, La stranezza che ho nella testa (traduzione di
Barbara La Rosa Salim, Einaudi, pp. 574, euro 22,00). 

Protagonista
Mevlut Aktaş, nato poverissimo sul finire degli anni ‘ 50 in un
villaggio dell’Anatolia centrale, e da ragazzo approdato a
Istanbul, le cui trasformazioni seguirà nei quarantatré anni delle
sue peregrinazioni in qualità di venditore ambulante, mentre la
città passa da tre a tredici milioni di abitanti e i quartieri della
sua infanzia vegono rasi al suolo, decretando che “il tempo delle
baracche è scaduto”.

Al centro della vicenda,
il rapimento di una fanciulla desiderata e, intorno, un affollamento
di voci appartenenti a tre generazioni di parenti più o meno
stretti, dei quali Pamuk offre un albero genealogico, con tanto di
“Indice delle persone” e “Cronologia”, apparati di un intrigo
nel quale teme, e al tempo stesso desidera, che ognuno di noi si
perda e si ritrovi. 
Facili associazioni di parole vengono in mente
nel rendere conto di questo romanzo abilmente confezionato con quella
zuccherosità di ingredienti cui già ci aveva assuefatto la storia
dell’ossessione amorosa raccontata nel
Museo dell’innocenza, anche qui
fra corteggiamenti del Kitsch e meticolose dedizioni all’inventario
capillare dei singoli gesti di ogni personaggio. 
Sulla scena di La
stranezza che ho nella testa

avanzano dunque i protagonisti di un romanzo radicalmente polifonico
e compiutamente dialogico, dove ognuno è il responsabile portatore
della propria parola pronunciata in prima persona, in una dialettica
corale che include, non più autorevole di altre, anche la voce del
narratore.
Ciò che più conta, in
questo romanzo, la vicenda le cui conseguenze si riverberano sulle
oltre cinquecentocinquanta pagine dell’intreccio, ha inizio durante
un ricevimento di nozze, quando Mavlut incrocia gli occhi della
giovane Samiha e ne resta stregato.
Per
tre anni le scriverà lettere d’amore senza riceverne risposta, ma
ingannato sul nome di lei indirizzerà inconsapevolmente quelle
lettere alla sorella maggiore, Rayiha, purtroppo non altrettanto
bella. Quando l’autore del raggiro, il cugino Süleyman (anche lui,
innamorato di Samiha) organizzerà per Mevlut il rapimento della
fanciulla, a presentarsi avvolta dal velo e protetta dal buio sarà
non
la reale destinataria delle lettere ma colei che, di fatto, le ha
ricevute: la tanto bruttina Rayiha.
Un lampo nella notte
illumina il volto della ragazza, che di buon grado ha acconsentito al
rapimento per sfuggire il matrimonio combinato dalla famiglia: Mevlut
la vede, prende coscienza del fatto che chi ha di fronte non è la
spasimata Samiha, e tuttavia tace.
Forse la sua profonda
dignità, o una ancora più radicale sottomissione al destino fanno
sì che Mevlut lasci andare le cose per il loro corso e sposi dunque
Rayiha, che lo ricambierà con un amore solido e capace di renderlo
felice. 
Solo dopo la morte di lei, l’affranto Mevlut inaugurerà un
nuovo capitolo della sua vita sposando finalmente Samiha, che nel
frattempo si è separata dall’uomo che aveva aiutato Mevlut a
scriverle le lettere d’amore, il comunista di famiglia
curdo-alevita Ferhat, tra i personaggi più convincenti del romanzo.
Intorno, orgogliosi
genitori, intriganti zii, competitivi cugini, fratelli, sorelle,
figli, nipoti, un potente imprenditore, un virtuoso calligrafo
sceicco del Tempio, che avanzano sulla scena ognuno offrendo il
proprio punto di vista, in una orchestrazione di voci che rimanda al
Faulkner di
Mentre morivo
mentre sullo sfondo si susseguono tre colpi di stato, l’inaugurazione
del primo ponte sul Bosforo, l’invasione di Cipro, il massacro
degli Aleviti e soprattutto la proliferazione dei nuovi quartieri di
Istanbul, ritratta nei suoi anfratti più poveri e desolati. Quella
desolazione nelle cui viscere amorevolmente si addentra l’ambulante
Mevlut, che vende la boza, bevanda degli ottomani derivata dal grano
fermentato, poi passa al gelato, poi al riso, e che conoscerà lavori
meno gravosi e più remunerativi, ma non per questo abbandonerà le
amate strade della capitale, dove vendendo le sue bevande, che ormai
più nessuno vuole, può tuttavia “osservare i passanti” e
abbandonarsi alla “stranezza” che ha nella testa.
 
Il romanzo
comincia con un narratore onnisciente, poi – a partire dal terzo
capitolo – tra i personaggi si insinua un’altra voce in terza
persona, introdotta dalla effigie di un uomo con due bilance sulle
spalle: quell’uomo è Mevlut, il protagonista, un piccolo venditore
ambulante di Istanbul. 

Come mai, proprio lui parla di sé in terza
persona, mentre tutti gli altri avanzano sulla scena dicendo “io”?
Per scrivere questo
romanzo ho deciso di uccidere il giovane scrittore postmoderno che è
il me, e tornare a uno stile classico: mi fa piacere che questa
conversazione parta da un problema di natura letteraria, perché mi
dà l’occasione per raccontare come mi servo di quel dispositivo,
messo a punto da Flaubert, che è lo stile indiretto libero.
Lei notava che me ne
servo per differenziare quella che è una voce narrante più vicina
alla mentalità del protagonista da un’altra voce che racconta la
vicenda in modo oggettivo, attenendosi ai dati di fatto. Anche
Tolstoj a volte usa un registro di tipo storico-giornalistico – per
esempio quando dice, in
Guerra
e pace
, che le armate
napoleoniche si stavano avvicinando a Mosca – e altre volte si
immedesima nel punto di vista di Pierre Bezochov, usando il suo
lessico. Va e viene tra queste due strategie narrative senza cambiare
marcia, e con la massima libertà. 
Ma a me pare che a influenzarmi
sia stato, soprattutto, il Flaubert di
Un
cuore semplice
.
Detto questo, per
raccogliere il materiale che mi sarebbe servito per il romanzo, mi
sono basato su una miriade di interviste alle persone più diverse,
venditori ambulanti come Mevlut, ma anche camerieri, e altri piccoli
professionisti, persino certi alti ufficiali di polizia ormai in
pensione sotto la cui giurisdizione cadevano i diversi quartieri di
Istanbul che mi servivano per l’ambientazione. 
Nei sei anni
impiegati per la stesura del libro, mi sono reso conto di avere
raccolto così tante voci che i dispositivi classici del romanzo non
bastavano più a rappresentarle, quindi sono tornato a una soluzione
che avevo già sperimentato in
Il
mio nome è rosso
, un romanzo
costruito dall’intreccio di molte voci diverse, che si smentiscono
anche reciprocamente e parlano in modo più o meno affidabile, o
inaffidabilmente affidabile, dando luogo a uno spazio narrativo molto
libero ma anche assai ambiguo.

Orhan Pamuk
Secondo Bachtin,
il romanzo polifonico è popolato da “uomini-idea”, portatori di
un punto di vista sul mondo, di una loro valutazione della realtà,
che scontrandosi con altri punti di vista innescano un principio
dialogico. 

Quali sono le principali idee che si oppongono in questo
romanzo?
Sì, anche questo mio
ultimo romanzo, come già uno precedente titolato
Il
mio nome è rosso
cade
sicuramente sotto la prospettiva bachtiniana che lei ricorda, ma in
questo caso non spetta al lettore risolvere il conflitto creato dalle
diverse voci dei personaggi, che si alternano, si sovrappongono, e in
molti casi si scontrano. Piuttosto che deflagrare in qualcosa come un
drammatico conflitto, tutte queste voci si ritrovano e si
riconciliano un po’ in quella di Mevlut, il protagonista al quale
riservo – del resto – il maggior numero di pagine.

Lei è un
appassionato conoscitore della tradizione modernista occidentale,
quella da cui trae, per esempio, l’idea di fare avanzare sulla
scena i personaggi facendoli parlare ognuno in prima persona. Al
tempo in cui scrisse
La
casa del silenzio
,
disse che se non aveva osato dotare di una voce propria
Nilgün,
la nipote della vecchia protagonistai,
era
perché non se la sentiva ancora di adottare un punto di vista
femminile. 

Qui, invece, mette in scena tre sorelle, due delle quali
sposeranno il protagonista, e le impegna in monologhi molto
credibile. 

Quali difficoltà ha trovato nell’adottare il loro punto
di vista?
Nessuna difficoltà,
questo è il mio primo romanzo femminista, e non resterà l’unico. 

Detto da un maschio turco, questo le suonerà come un
ossimoro, e infatti lo dico in modo ironico, tuttavia sono molto
contento dei risultati. 
Mi sembra di essere riuscito, infatti, a
rappresentare bene la condizione in cui vivono le donne in Turchia,
la repressione a cui sono soggette, gli abusi che subiscono, la loro
umanità fatta di rabbie espresse in un linguaggio spesso molto
affilato, la loro immaginazione, il loro senso dell’umorismo, e in
definitiva il loro essere tramiti di un vero pensiero alternativo.
In quanto figlio di una
madre che aveva una sorella maggiore e una minore, ricordo benissimo
le sedute tra queste tre donne, che si raccontavano a vicenda la
relazione con i loro mariti, confrontavano le reciproche situazioni
familiari, producevano una battuta dopo l’altra, e ridevano davvero
molto. 
Certo, io provengo da un ceto sociale diverso da quello dei
personaggi di cui parlo nel mio romanzo, tuttavia ritrovo in loro un
senso dell’umorismo capace di schierarsi e di contrapporsi
efficacemente alla consuetudine repressiva che le donne subivano da
parte dei loro mariti, spesso trattate come delle serve, al tempo in
cui ambiento la vicenda ma anche oltre. Mi creda, per parlare di
questi aspetti non ho dovuto né documentarmi, né fare chissà quali
ricerche, potevo disporre di molto materiale in presa diretta.
C’è, a questo
proposito, un capitolo in cui il personaggio di Vediha, la sorella
maggiore, infila cinquanta domande per chiedersi se sia giusta la
sorte che le spetta, evocando le colpe che ingiustamente le
addossano, i rimproveri che le muovono, il disprezzo che le
riservano, e così via per tre pagine, tanto che, alla fin fine, il
tutto suona piuttosto comico…
Ecco, appunto, per
scrivere questa pagine non ho certo avuto bisogno di andare a cercare
chissà dove. Il monologo di Vediha, questa donna che manda avanti da
sola tutta la baracca e dispensa consigli, mi viene da osservazioni
accumulate nella mia infanzia, quando andavo a trovare i miei
compagni di scuola e già sulla soglia delle loro case capivo con chi
avevo a che fare. C’erano famiglie in cui ci facevano togliere le
scarpe prima di entrare, le donne erano velate, non facevano che
andare e venire per servirci il te, insomma era chiaro che ci
trovavamo in famiglie conservatrici musulmane, e tuttavia anche tra
queste avevo dei carissimi amici. Ma alle donne non si permetteva, in
quelle famiglie, nemmeno di accedere al telecomando della
televisione.
I suoi sono
personaggi al tempo stesso felici e malinconici, non si abbandonano a
congetture ma si dilungano nella stesura di una sorta di diario
interiore in cui riportano capillarmente, come già nel
Museo
dell’Innocenza
,
ogni loro minimo gesto. Alla fin fine, questa mancanza di economia
nel riportare ciò che pensano, dicono e fanno i suoi personaggi,
“fra intenzioni del cuore e intenzioni delle labbra”, è
diventata una cifra del suo stile, non crede?
Questo mi sembra un modo
molto gentile per dirmi che questo romanzo si addentra troppo nei
dettagli, e posso anche accettarlo. 
Ma se è così, non dipende dalle
voci narranti, e non è un dispositivo stilistico. 
Ha molto più a
che vedere con il mio desiderio di accogliere e restituire tante voci
e tanti particolari che diano conto dei cambiamenti di Istanbul
durante l’arco dei cinquant’anni in cui si svolge il romanzo. In
questo senso, direi che mi comporto come il curatore di un museo che
non riesce a buttar via nemmeno un cucchiaino: così come quello non
si può disfare di un oggetto, per quanto banale, io non riesco a
tralasciare nemmeno un gesto o una parola dei miei personaggi. 
D’altronde ho deciso che questo sarebbe stato un romanzo epico.
Tuttavia, si
direbbe che lei si trovi soprattutto a suo agio quando affonda la
penna nel miele, e riconducendo i sentimenti amorosi alla loro
elementarità, li espone senza il filtro del pudore…
Per le verità mi irrito
molto quando qualcuno, magari non avendo letto bene il romanzo, mi
dice: ecco qui un libro alla Zola. Non è così.
Il mio romanzo vuole
essere una invenziona giocosa e al tempo stesso molto introspettiva,
e la cura che metto nel restituire l’eleganza di certi gesti, di
determinati oggetti, così come l’importanza di certe relazioni, o
delle piccole cose nella vita di ogni giorno rimanda, a mio parere,
piuttosto a un atteggiamento proustiano, o tolstojano. 
Certo, il mio
Mevlut non è un Pierre Bezuchov, uno che esercita chissà quale
impatto, o che lascia chissà quale segno sulla Storia. E’ un uomo
qualunque, preso dalla vita ordinaria. 
Ma proprio questa sua
piccolezza, combinata con ciò che lei chiama “miele” porta a una
attenzione minuziosa nei confronti dei dettagli più diversi della
vita.

orhan pamuk istanbul

Quando scopre di
essere stato ingannato, Mevlut non reagisce: crede di avere
organizzato il rapimento della donna di cui si era innamorato, ma
dopo avere scoperto che si è presentata al suo posto la sorella, non
dice niente e la sposa senza protestare. Come dobbiamo interpretare
questa sua passività?

Beh, è probabile che,
quando scopre la trappola, Mevlut si dica tante cose, ma Orhan Pamuk
non permette al lettore di leggere nella sua testa: che ognuno arrivi
alla fine del libro e tragga le proprie conclusioni. Il romanziere
plasma i personaggi a volte anche occultando i loro pensieri, per
lasciare al lettore un po’ di lavoro e perché prenda lui la
decisione definitiva su cosa pensarne. Non è detto che se avessi
squadernato i ragionamenti di Mevlut e i suoi sentimenti questo lo
avrebbe reso più interessante.
E c’è una cosa,
soprattutto, da non dimenticare: Mevlut accetta con affetto e sposa
con dedizione la donna che gli si è presentata, nonostante
l’inganno, perché con lei scoprirà le gioie del sesso. Una volta
che le ha scoperte e le ha frequentate, in fondo che gliene importa
se era lei la donna giusta o quella sbagliata?
In una delle sue
Norton Lectures lei afferma che noi andiamo sempre “scrupolosamente
alla ricerca del centro segreto del romanzo”. 
Qui, tra le pagine di
La stranezza che ho
nella testa
, il
centro qual è?
Dipende dalle
interpretazioni. La sfida che ho lanciato a me stesso era vedere la
vita di Istanbul, nella sua dimensione epica, attraverso gli occhi di
un protagonista appartenente a una classe povera, quindi molto
distante dal mio ceto di provenienza.
Ho fatto del mio meglio
per non cadere nei soliti tranelli, per non scivolare nel melodramma
e provocare compassione. Perciò, era necessario che mi sforzassi di
ritrarre Mevlut nella contraddittorietà della sua dimensione umana,
con tutti i suoi errori, senza appiattirlo su un ritratto di
ambientazione pauperistica. 
Ecco, magari da un punto di vista teorico
non sarà questo il centro del romanzo, ma era il cuore delle mie
ambizioni.
Per i suoi
personaggi il pensiero è azione, e l’azione si svolge perlopiù
nei dialoghi: le torna?
Non ci avevo pensato,
però è vero che trovo un po’ rozzo concentrarsi solo sulla azione
tout cort, e certamente desidero che questa si distribuisca nei
dialoghi tra le parti. 
Inoltre, la gravitas di certe azioni o
situazioni deve essere bilanciata dalla ironia: in questo romanzo, la
pesantezza è data dalla condizione sociale molto umile alla quale
appartiene Mevlut, con il lavoro al quale è sottoposto e le
umiliazioni che questo implica; tutto ciò cerco di controbilanciarlo
offrendo del personaggio una vita intima che è, in realtà, piena di
gioia. Avevo il problema di fare in modo che il lettore fosse
disposto a seguire il mio personaggio per cinquecento e rotte pagine,
e questo mi ha obbligato a dotarlo di fantasia, di
stranezza,
appunto, di una sua speciale visione delle cose.
In parte Mevlut somiglia
a me: fin da quando ero ragazzo gli amici mi dicevano: “Orhan, hai
una strana testa”. Poi un giorno ho letto
Il
preludio
di William
Wordsworth e ci ho trovato questa frase da cui ho tratto il titolo
del libro: “Avevo pensieri malinconici… Una stranezza nella mia
testa”, così mi sono detto che prima o poi avrei dovuto scrivere
un romanzo il cui titolo contenesse queste parole.