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La condivisione del sapere è magnifica. Ma chi paga che cosa?

di
Annamaria Testa
internazionale, 30 Marzo 2016
 - Alex e Laila, Getty Images

La
cooperazione, la condivisione e la diffusione del sapere stanno
cambiando le nostre vite.

Ad
affermarlo in modo assai convinto è l’antropologa Stefana
Broadbent
, capo del dipartimento di intelligenza collettiva del
Nesta (National endowment for science, technology and the
arts), un’organizzazione britannica senza scopo di lucro che si
occupa di imprese creative e di innovazione.
Broadbent
da decenni studia i fenomeni sociali legati allo sviluppo
tecnologico.
Interviene
alla manifestazione milanese Meet the media guru proprio per
parlare di Knowledge commons e intelligenza collettiva. Ecco,
in estrema sintesi, quel che racconta.
Ormai,
dice, siamo abituati a trovare dovunque conoscenza diffusa da singoli
individui.
Su YouTube
le persone caricano e consultano video di spiegazioni (tutorial) su
qualsiasi argomento, dalla coltivazione dei pomodori alle ultime
scoperte sui fattori di rischio del diabete. Ma questa condivisione
di conoscenza è un fatto inedito e una grande risorsa che va ben
oltre i video su YouTube: l’intelligenza collettiva è un
capitale che, grazie alla rete, già oggi viene investito nei campi
più diversi.
I casi sono
ormai davvero tanti. Wikipedia è solo il più noto: nata nel
2001, già nel 2008 entra nel Guinness dei primati come la più ampia
enciclopedia del mondo.
Oggi conta
più di 35 milioni di voci, distribuite su edizioni in 53 diverse
lingue.
Un altro
caso assai conosciuto è Mozilla Firefox, il browser nato nel
2002, il cui codice è aperto e può essere distribuito e migliorato
da chiunque voglia farlo.
Ma la
condivisione del sapere non si esprime solo nel mondo virtuale e può,
per esempio, applicarsi alla coprogettazione urbanistica: Anne
Hidalgo, sindaca di Parigi, si appella all’intelligenza collettiva
per progettare una città che sia juste, progressiste et durable.
Può
trattarsi di mettere a frutto (o, in certi casi, di sfruttare) le
risorse collettive.
Oppure –
e questo è un secondo caso – di mettere quelle risorse in comune.
O, infine,
di favorire la partecipazione dei cittadini.
Già da
qualche anno esistono siti come Quora, dove i cittadini
possono pubblicare domande e risposte su qualsiasi tema, o come
Global Pulse, il sito delle Nazioni Unite per l’analisi dei
big data riguardanti il benessere delle popolazioni, e il loro
impiego per progettare piani di sviluppo più efficaci.
C’è
Fold-it: un videogioco messo a punto dall’università di
Washington, il cui scopo è trovare modi efficaci per “ripiegare le
proteine” e dare una mano agli scienziati che inventano nuovi
farmaci.
C’è
Nature’s notebook, che chiede di tenere sotto controllo il
cambiamento climatico osservando piante e animali. Lo trovate,
insieme a molti altri siti di analoga impostazione, sulla piattaforma
di scienza condivisa (citizen science) Scistarter.
Ma esistono
anche fenomeni di microlavoro (a fronte di microcompensi) com’è,
per esempio, Mechanical Turk, la piattaforma di elaborazione
dati lanciata da Amazon nel 2005.


Ogni volta
che il compito è proposto da un’organizzazione centrale, che poi
riserva a se stessa la sintesi dei contributi, allora abbiamo
un’estrazione di valore dalla rete.
È
capitalismo cognitivo: digital labour (attenzione: è lavoro
digitale anche l’interazione attraverso i social media).
Non
a caso il ministero del lavoro francese sta pensando a come questo
tipo di attività possa essere regolata all’interno della
legislazione sul lavoro. 
 
Video and Film
Comunità
sapienti
Una
prospettiva opposta è quella dei knowledge
commons
(informazioni e dati gestite da comunità di
utenti) e riguarda le piattaforme per l’organizzazione di
conoscenze che poi vengono integralmente redistribuite e messe in
comune.
È il caso
del Debian project, un
sistema democratico e volontario di progettazione di software che si
è addirittura dotato di una propria costituzione, o di
GitHub,
un popolare deposito di centinaia di migliaia di linee di codice open
source.
Open Street
Map organizza sessioni di mappatura collettiva, integrando fisicità
e mondo virtuale (c’è anche una comunità italiana).
In
collaborazione con Medici senza frontiere e la Croce rossa sta, però,
anche mappando le zone a rischio, in modo da raccogliere, a partire
dalle immagini satellitari, dati utili a proteggere le popolazioni
più vulnerabili.
Uno degli ambiti di condivisione più
importanti riguarda la salute: RareConnect mette in contatto
in tutto il mondo pazienti che hanno malattie rare, e permette di
condividere storie, informazioni e discussioni, integrando conoscenze
scientifiche ed esperienze dei pazienti. 
Sul melanoma c’è Melanoma
patient network Europe
.
Invece Reg4all tratta di malattie
genetiche e permette di condividere informazioni sulla propria salute
con i ricercatori.
Un terzo
importante campo di applicazione riguarda la partecipazione dei
cittadini.
Le
amministrazioni locali si chiedono come sfruttare l’intelligenza
collettiva, favorendo l’inclusione dei cittadini sia allo scopo di
guadagnarsi la loro fiducia, sia per ridurre i costi di raccolta-dati
e di messa a punto delle soluzioni.
Ormai hanno
capito che i cittadini, presi nel loro complesso, sanno un sacco di
cose.
Nascono
così FixMyStreet, il sito londinese che permette di segnalare
problemi e disservizi alla pubblica amministrazione, o Plaza
Podemos 2.0
per coordinare iniziative civiche e costruire
programmi politici. C’è perfino un documento della Casa Bianca che
parla esplicitamente di accelerare la citizen science e il
crowdsourcing per affrontare sfide complesse e favorire lo
sviluppo sociale e scientifico.
Ma quanto
sono affidabili i siti di crowdsourcing? Come vengono gestiti?
Non appena
si parla di saperi condivisi , dice Broadbent, vengono fuori questi
problemi. 
Per esempio, il gruppo sul melanoma segue protocolli molto
rigidi.
Altre
piattaforme non fo fanno. Tutti, però, a partire da Mozilla,
adottano sistemi meritocratici basati sulla reputazione acquisita
attraverso la qualità dei contributi.
La sfida è trovare un (difficile)
equilibrio tra tecnologia, non sempre adeguata, gestione dei dati e
delle organizzazioni, condivisione degli obiettivi con la comunità.
Inoltre, bisogna avere il coraggio di
proporre sfide su problemi complessi e la capacità di suscitare
proposte interdisciplinari, selezionando le migliori attraverso
discussioni e votazioni in rete.
Come
quantificare il sapere?
Le
condizioni per intraprendere iniziative di successo sono, invece,
tutto sommato semplici (almeno da dire; ma non così semplici da
realizzare): avere obiettivi chiari e ben definiti. 
Integrare
attività in rete e attività nel mondo reale. Integrare contributi
di singoli e  di gruppi organizzati, che a loro volta possono essere
depositari di specifiche competenze.
Un modello
interessante è offerto da ClimateCoLab, un progetto del
Centro per l’intelligenza collettiva dell’Mit per reperire
proposte sul cambiamento climatico.
L’ultimo, ma non meno importante, tema
di discussione è questo: dato per acquisito il valore sociale del
sapere condiviso, c’è un valore economico che viene generato.
Come quantificarlo? E come remunerarlo,
considerando le persone non più solo come produttrici di dati, ma
anche comeportatrici di competenze?
La reputazione acquisita in rete è (e
ha) un valore? O dobbiamo cominciare a pensare a un salario
garantito, almeno per i contributori più preziosi?
Se non si affrontano questi nodi, la
meraviglia che è il crowdsourcing rischia di trasformarsi
nell’ennesimo fenomeno di lavoro intellettuale sottopagato.