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Il demone dei massacri che voleva essere poeta.

di
Redazione Italia, ilsole24ore, 25 Marzo 2016.
Dominare la
vita, corteggiare la morte, infliggerla agli altri, architettare
stragi e pulizie etniche, credersi un grande poeta che salva un mondo
in disfacimento insieme alla Jugoslavia e poi cambiare vita,
nascondersi da latitante e ricercato con una nuova identità per
diventare una sorta di guru psicopatico delle periferie di Belgrado:
tutto questo è stato Radovan Karadzic, amico anche di quel Limonov
descritto da Emanuel Carrére con il quale spareranno su Sarajevo
accanto alle Tigri di Arkan, con il generale Mladic che dirigeva
l’artiglieria e Milosevic a contare i morti nella residenza dove
aveva abitato per decenni il Maresciallo Tito.
Lo stesso
palazzo che esattamente 17 anni fa bombardava la Nato dopo il
fallimento dei negoziati sul Kosovo, un anniversario ricordato a
Belgrado e che forse passerà inosservato di fronte alle tragedie
presenti.
Karadzic è stato per un decennio uno dei demoni dei
massacri dei Balcani e anche uno degli incubi, insieme alle granate,
dei giornalisti che risiedevano all’Holiday Inn nei giorni
dell’assedio di Sarajevo.
Al culmine
della sua parabola di leader Karadzic amava farsi annunciare
rumorosamente.

Nel febbraio del ’92 le sue milizie entrarono
sparando all’impazzata nella hall dell’Holiday Inn per non lasciare
dubbi su chi si preparava ad assediare, per oltre 1.200 giorni, la
città di Sarajevo. Lui arrivò poco più tardi, a notte
fonda, a occupare le suite dell’albergo. 

Si accomodò su in divano e
passò rapidamente, senza mostrare alcun disagio, dalle raffiche di
mitra alle “interviste”, rilasciando dichiarazioni sconcertanti. 
«I musulmani bosniaci non sono altro che stranieri, turchi da
eliminare, visto quello che fecero qui i pasha durante l’Impero
ottomano mozzando le teste dei nostri antenati. 
Sono solo degli
ammazzacristiani, dei nemici della civiltà». 
Foto Afp
Radovan Karadzic
Era inutile far notare
che a Sarajevo, esempio di convivenza, c’erano molti matrimoni misti
e che nelle moschee, all’epoca, non andava neppure il 10% della
popolazione.
Karadzic era convinto di essere nel giusto e
inframmezzava i suoi discorsi, anche in inglese, con citazioni che
volevano essere forbite: si piccava di essere poeta, oltre che
psicanalista. Un oratore efficace con inclinazioni da teatrante che
stava preparando non una recita innocua fatta di frasi roboanti ma il
peggiore massacro nel cuore dell’Europa dai tempi della Seconda
guerra mondiale: 200mila morti e quasi un milione di profughi.

Lo
ascoltavamo perplessi, non increduli, perché dopo il referendum con
cui era stata varata qualche giorno prima l’indipendenza della Bosnia
si erano già manifestati i presagi della tragedia. L’altro
criminale, il generale serbo Ratko Mladic, aveva mobilitato
l’artiglieria mentre il neo-presidente bosniaco, il musulmano Alja
Izetbegovic
, si illudeva di poter contare sull’esercito federale per
tenere a bada le milizie.