I cubani di Miami
di Redazione Italia, ilpost, 25 Marzo 2016
Mentre
domenica 20 marzo, per la prima volta dopo 88 anni, un presidente degli Stati Uniti in carica atterrava all’Avana,
Cuba, a meno di 400 chilometri di distanza, a Miami, un gruppo di
manifestanti cubani protestava contro quella stessa visita.
«Mi
vergogno del nostro presidente oggi. Sono stato arrestato a Cuba per
non sostenere Fidel e non ho perso la forza di lottare», ha
raccontato uno di loro.
In
molti tenevano cartelli con le foto dei membri delle loro famiglie
che si trovano ancora oggi in carcere per essersi opposti al regime
di Castro, altri sventolavano bandiere e striscioni che accusavano
Obama di «corteggiare il governo cubano».
Le
proteste, a cui hanno partecipato circa 200 persone, si sono tenute a
Little Havana, un quartiere residenziale di Miami, dove si trova una
grande comunità di esuli cubani che è il prodotto di un vasto
fenomeno di immigrazione iniziato nel 1953.
Joe Raedle/Getty Images) |
Tre
grandi migrazioni
La
storia delle migrazioni da Cuba verso la Florida può essere
suddivisa in tre grandi momenti. A partire dalla rivoluzione cubana
(il periodo compreso tra il 1953 e il 1959, segnato dall’ascesa al
potere di Fidel Castro che destituì la dittatura di Fulgencio
Batista) le tensioni tra Cuba e Stati Uniti si inasprirono sempre di
più: nel 1962 gli Stati Uniti
imposero a Cuba un embargo
commerciale, economico e finanziario, destinato a durare fino al
2014.
cubani anticastristi abbandonarono allora Cuba per Miami, in Florida:
il punto più semplice da raggiungere. Inizialmente si trattava di
quelli che con la dittatura di Batista e con gli americani
avevano intrattenuto stretti rapporti: erano persone che
appartenevano alla borghesia o alla classi medio-alte, medici,
avvocati, architetti.
immigrati cubani ricevettero un trattamento “preferenziale” e gli
Stati Uniti incentivarono le partenze dei professionisti e dei
tecnici qualificati, come parte di una politica volta a impedire lo
sviluppo economico e sociale di Cuba.
il presidente Lyndon Johnson firmò una legge (la Ley de Ajuste
Cubano o in inglese Cuban Adjustment Act – CAA) che stabiliva nei
confronti dei “rifugiati cubani” un’eccezione rispetto alla
legislazione applicata a qualsiasi altro straniero.
la legge stabiliva che qualsiasi cittadino cubano o nativo di Cuba
che entrava negli Stati Uniti dopo il gennaio 1959, e che viveva
negli Stati Uniti per un periodo non inferiore a un anno, poteva
ricevere la condizione di residente permanente nel caso ne facesse
richiesta. Nel 1966, a sei anni dall’inizio della grande
emigrazione da Cuba, circa 300 mila persone erano state ammesse negli
Stati Uniti (su una popolazione di circa 6 milioni di cubani nel
1960).
grande esodo di massa avvenne nel 1980, quando 125 mila cubani (in
seguito chiamati “marielitos”) si imbarcarono dal porto di Mariel
verso il sud della Florida a causa di una grave crisi dell’economia
cubana. L’esodo fu organizzato da statunitensi di origine cubana
con l’autorizzazione di Fidel Castro, ma si scoprì che una
percentuale di esuli era stata rilasciata dalle prigioni e dagli
ospedali psichiatrici dell’isola.
così inizio una serie di lunghe e complicate trattative tra i due
paesi per rimpatriare i cosiddetti “indesiderabili” e per
regolamentare il rilascio controllato dei visti statunitensi a chi
voleva lasciare Cuba. Proseguiva però, parallelamente, una politica
di accettazione di tutti quelli che riuscivano ad arrivare in modo
illegale negli Stati Uniti.
Il
terzo grande esodo avvenne nel 1994 e fu raccontato dai giornali di
tutto il mondo come la “crisi dei balseros”: il governo
rivoluzionario accusò gli Stati Uniti di promuovere gli esodi
illegali e il crollo del blocco sovietico e dei paesi del blocco
socialista dell’est Europa che garantivano a Cuba un’alta quota
del commercio estero, causò problemi serissimi di denutrizione. Dopo
le rivolte dell’agosto del 1994 sul lungomare dell’Avana (il
Malecón)
provocate da quella crisi, Fidel Castro decise di non continuare a
proteggere le frontiere affinché tutte le persone interessate a
partire verso gli Stati Uniti potessero farlo senza restrizioni. E lo
fecero in migliaia, spesso con zattere (balsas),
rischiando – e molti perdendo – la vita.
dei “balseros” fu alla base dei nuovi accordi migratori tra gli
Stati Uniti e Cuba tra il settembre del 1994 e il maggio del 1995.
Gli Stati Uniti concordarono l’accoglienza annua di 20 mila
immigrati cubani, ma confermarono di fatto la precedente politica
delle porte aperte, quella conosciuta con il nome di “piedi
asciutti-piedi bagnati” attuata durante la presidenza di Bill
Clinton: se i migranti venivano intercettati in mare dovevano essere
restituiti a Cuba, se invece riuscivano a raggiungere la terra ferma
potevano restare.
accordi fornirono comunque una via migratoria più sicura e
contribuirono a rallentare l’esodo: furono però oltre 600 mila i
cubani che entrarono legalmente negli Usa. Questi
immigrati, come quelli arrivati in precedenza ad esempio dal porto di
Mariel, facevano parte soprattutto delle classi più basse, a
differenza di quelli arrivati tra gli anni Sessanta e Settanta.
Joe Raedle/Getty Images) |
I
cubani di Miami riuscirono in poche decine di anni a imporsi come una
delle comunità di immigrati più prospere.
Secondo
i dati del 2011, Little Havana ha la più alta concentrazione di
ispanici di Miami (98 per cento). Tra la popolazione latinoamericana,
i cubani sono diminuiti a causa soprattutto dell’arrivo verso la
fine degli anni Novanta di latini provenienti da altre
nazioni, Nicaragua e Honduras, per esempio.
Ma Little Havana è considerata ancora oggi la capitale
culturale e politica dei cubani americani.
Gli
esuli della prima ondata facevano parte dell’élite dell’isola:
in mancanza di qualsiasi tipo di rapporto con Cuba, reinvestirono
quanto avevano nel loro nuovo paese.
Phillip Carter, professore di linguistica alla Florida International
University, ha spiegato all’Atlantic
che Miami non è solo una città bilingue – nel 1963, poco
dopo che gli esuli cubani iniziarono ad arrivare, a Coral Way,
quartiere residenziale di Miami, venne aperta la prima scuola
bilingue degli Stati Uniti – ma anche che la sua economia si
regge sui sistemi creati da entrambe le comunità.
Mentre in altre grandi città lo spagnolo è
comunemente parlato dai residenti a basso reddito, a Miami lo
spagnolo viene utilizzato da tutte la fasce sociali.
La
comunità cubana di Miami (soprattutto quella della prima ondata) era
molto coesa, forte e unita intorno a una precisa idea: opporsi a
Castro.
Nel tempo fondarono dei giornali di riferimento
e diverse organizzazioni non governative molto influenti: la più
conosciuta è il Directorio Democratico Cubano.
Con il tempo le cose sono però
cambiate (o stanno cambiando).
Alcuni sociologi, come ad esempio
Alejandro
Portes, descrivono l’attuale comunità cubano-americana come
una “enclave biforcata”. Da un lato, ci sono gli immigrati o i
figli degli immigrati arrivati negli anni Sessanta e Settanta con una
condizione sociale ed economica elevata, dall’altra ci sono le
persone arrivate a partire dagli anni Ottanta che hanno un profilo
simile a quello degli altri gruppi di immigrati latinoamericani.
In
generale, le seconde generazioni si sono formate nelle università
americane e sono più favorevoli a un’apertura a Cuba, tornano
spesso a visitare l’isola (più di 300 mila l’anno) e,
indipendentemente dal loro giudizio nei confronti del governo
cubano, sono più interessati al benessere dei parenti sull’isola
che alla politica dell’esilio.
In
generale questo ha portato a un cambiamento nella tendenza politica
tra i cubano-americani del sud della Florida. La comunità cubana di
Miami è tradizionalmente Repubblicana, tendenzialmente conservatrice
e anticomunista.
E ha avuto un ruolo importante nell’elezione
di Ronald Reagan prima e in quella di George W. Bush poi. Nel 2012
era stato interpretato come segno di grande cambiamento il fatto che
più del 40 per cento degli elettori cubano-americani avesse votato
per Barack Obama, con percentuali maggiori tra i più giovani.
I motivi
indicati dagli analisti erano sostanzialmente due: sempre maggiori
dubbi sull’efficacia della strategia dell’embargo e sempre
maggiori preoccupazioni che i Repubblicani potessero ostacolare il
desiderio degli esuli di mantenere i contatti con le proprie
famiglie.