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Ciad. Oltre Deby?

di Redazione Italia, sullastradacon, 25 Marzo 2016
 

Nel cuore
del Ciad fermento e tensione alla soglia delle elezioni.
Sfrecciano
in direzione nord, verso Ati, in pieno Sahel, alla ricerca dell’oro. 
Le moto Honda provenienti dai più diversi angoli del Ciad si
moltiplicano in pochi attimi e puntano verso i villaggi dove,
recentemente, un pastore di cammelli ha scoperto le tracce del
metallo più prezioso. Per poco non si incrociano con i fuoristrada
dei politici super pagati (si parla di milioni di francs CFA) che in
dicembre, mentre sempre più giovani sono disoccupati e i professori
nelle scuole senza stipendio da mesi, girano allegramente il paese.
Dicono di coordinare le operazioni del primo censimento biometrico in
vista delle prossime elezioni di aprile. In realtà hanno già aperto
la campagna con tanto di bandiere e foulard dei colori soprattutto
del partito al potere: l’MPS (Movimento patriottico di salvezza).
La “febbre
dell’oro e della poltrona” contamina tutti. 
L’esercito
interviene in modo brutale senza risparmiare pallottole, feriti e
morti sul terreno. 
I “metal detector” e le moto vengono
sistematicamente sequestrati. 
Le armi sempre più sofisticate dei
militari al soldo del presidente Idriss Deby, in carica dal 1990,
difendono la ricchezza del sottosuolo dagli avventurieri predatori.
E’ un
esercito armato fino ai denti. 
Carri armati, bombe, missili e
munizioni a non finire sono nascosti tra la capitale N’Djamena e Am
Djarass, il villaggio natale del presidente Idriss Deby. 
Un piccolo
villaggio nel deserto messo a nuovo con tanto di aeroporto
internazionale, palazzo presidenziale, ville e asfalto. 
Simbolo del
Ciad potente, divenuto in poco tempo “potenza militare regionale”
pronto ad intervenire ovunque (Mali, Centrafrica, Camerun, Nigeria)
per riportare stabilità nel Sahel devastato da terrorismo e
ribellioni. Con tanto di lasciapassare di Francia e Stati Uniti che
curano per bene i loro interessi geostrategici nella zona. 
Il patto è
sempre lo stesso: “vi lasciamo una parte del petrolio se voi ci
assicurate la sicurezza nella zona”.

 

Ma Boko
Haram
fa paura. 
Gli attentati nella capitale N’Djamena di giugno e
luglio dell’anno scorso hanno lasciato il segno nella vita
quotidiana e nelle abitudini dei ciadiani. 
Ad Abéché, a due passi
dal Sudan, un giovane nigeriano viene fermato dalla polizia
all’Università Adam Barka. Nello zainetto diversi documenti falsi,
carte telefoniche e un biglietto con il nome di un certo “Hassan”
che deve accoglierlo per “progettare il piano”. Mentre alla
frontiera con la Nigeria gli attentati di kamikaze suicida sono
all’ordine non del giorno ma della settimana. Mercati, scuole,
piazze pubbliche sono prese di mira per fare il maggior numero di
morti e feriti. 

Da novembre nella regione del Lago Ciad è in vigore
lo Stato di emergenza. 
Come se non bastasse l’emergenza del lago,
il cui bacino si è ridotto del 50% negli ultimi 10 anni. Un dramma
ecologico che mette a rischio la vita dei 40 milioni di persone che
ci vivono attorno. Ora con il terrore della violenza dentro casa.
La collera
della setta islamica che condanna ogni sorta di legame con
l’occidente (Boko Haram significa “il libro è vietato”) è
stata accolta come naturale dal gruppo etnico ciadiano dei Boulouma,
da sempre dimenticato ed emarginato da N’Djamena. 
Lo ha capito
anche il presidente che da fine 2015 ha stanziato per lo sviluppo
della regione 4,5 milioni di francs CFA mirati alla costruzione di
scuole e ospedali. 
Bene il contrasto alla miseria con lo sviluppo. 
Ma
al presidente interessa davvero la popolazione o piuttosto il blocco
del commercio? 
Da tempo
infatti la frontiera con la Nigeria è chiusa a grave danno
dell’economia ciadiana. 

La Nigeria è un grande importatore del
bestiame nonché del miglio, delle arachidi e delle pelli di bovini
ciadiani. Le dogane non fanno più affari, l’economia stenta con il
petrolio in caduta libera. Produttore dell’ “oro nero” dal 2003
il Ciad è legato indissolubilmente ai proventi petroliferi: il 75%
delle sue entrate viene dall’estrazione. 
Ma i soldi non circolano
più come prima. Il budget dello Stato era stato previsto con il
prezzo del petrolio al doppio dell’attuale. I conti non tornano e
gli scioperi incalzano. 
Per le strade si incrociano le proteste dei
giovani disoccupati, le grida degli insegnanti senza stipendio e la
collera delle giovani ragazze che a metà febbraio insorgono in tutto
il paese per denunciare la violenza sessuale perpetrata da un gruppo
di studenti a danno di una coetanea. 

Tra loro il figlio di un
ministro che rischia poltrona e onore. 
Scuole chiuse in tutto il
paese per tre giorni e rischio di “bomba sociale” ad un passo
dalle elezioni.
I
riflettori sono puntati su aprile per l’ennesima messa in scena di
un teatro già visto. 
Un opposizione divisa e a pezzi, salvo qualche
rara novità, fa il gioco del presidente  che dopo il cambio
della costituzione, ormai 12 anni fa, si avvia inesorabilmente verso
il quinto mandato. 

Gli avversari gridano nel deserto senza mordere.
Avevano giurato di non presentarsi se i kits d’identificazione
degli elettori non fossero stati assicurati. 
Ma si sono ben presto
rimangiati la parola nell’attesa di spartirsi la torta con il
vincitore che li ha comprati da tempo. Di giorno alzano la voce e la
notte tendono la mano. 
La campagna si fa a suon di francs CFA e Deby
ne ha da vendere. 
Non può permettersi di perdere sedia, soldi e
onore ora che anche l’Unione Africana lo ha messo sul trono, con un
abile manovra politica, come presidente di turno. 
Ha giurato subito
di impegnarsi per il federalismo  e per lottare contro il
terrorismo e i focolari di instabilità nel continente. Ma dovrà
fare i conti in casa sua. 
Prima che sia troppo tardi.
E prima
soprattutto che il processo Habré, in corso a Dakar, lo possa
chiamare in causa sul serio. Il terribile dittatore degli anni ’80
(1982-1990), Hissene Habré, è finalmente a giudizio in Senegal
accusato di crimini contro l’umanità per la tortura, l’uccisione
e il sequestro di più di 40.000 persone. In dicembre è finito
l’ascolto dei 93 testimoni che hanno raccontato di sangue, dolore e
violenze indicibili di quella pagina di storia scritta a lettere
maiuscole anche da Deby. Allora capo di Stato maggiore dell’esercito. 
Tradotto: dentro fino al collo. 
Come la Francia che li ha sostenuti
calcolando al ribasso il rischio Gheddafi nella sua zona di
influenza. 
Sono
trascorsi più di trent’anni ma le ferite sono ancora aperte e la
memoria del popolo ciadiano è più che mai viva. Se tutti, dagli
uomini politici ai religiosi, dai commercianti ai funzionari, dagli
agricoltori agli allevatori parlano incessantemente della
coabitazione pacifica è perché il rischio di rituffarsi nella
guerra civile è ancora alto. E il dente è avvelenato.
La sentenza
di Habré è attesa per maggio. Giusto la data del possibile
ballottaggio. 
La giustizia dei tribunali e il verdetto degli elettori
sembrano rincorrersi. 
Ce la
faranno i ciadiani a voltare finalmente pagina?