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Prof. Stefano Catalano: Il principio di laicità


di Prof. Stefano Catalano, Relazione tenuta a Bolzano, il 09. ottobre 2015 sul principio di laicità nei diversi paesi europei, un concetto fondamentale per riflettere sui simboli religiosi e l’espressione religiosa nello spazio pubblico, sul diritto e il divieto del velo islamico, sull’islamofobia e sulla schizofrenia di certe sentenze quando si tratta della donna musulmana. Il Prof. Stefano Catalano insegna diritto costituzionale all’Università di Milano. http://www.unimi.it/chiedove/cv/stefano_catalano.pdf
Ragionando
sul principio di laicità bisogna dire, in primo luogo, che di esso se ne
possono avere accezioni diverse.
Esso,
inoltre, riguarda sia il modo in cui lo Stato si pone verso le confessioni
religiose, sia il modo in cui lo stato riconosce e garantisce (oppure non
garantisce) ai singoli di professare la propria fede.
Per
prima cosa occorre dire che in Italia il principio di laicità è un principio
fondamentale, anche se non è espressamente sancito dalla Costituzione. La Corte
costituzionale, nella sentenza n. 203 del 1989 ha detto che questo principio è
talmente essenziale da non poter essere messo in discussione neppure attraverso
la modifica della Costituzione.
Il
principio di laicità dice la Corte costituzionale “emerge dagli artt. 2, 3, 7,
8, 19 e 20 della Costituzione”.
Ma
oltre all’affermazione del principio la Corte costituzionale ha chiarito anche
il suo significato. Sempre nella sentenza n. 203 del 1989 si dice esso “implica
non indifferenza dello Stato dinanzi alle religioni ma garanzia dello Stato per
la salvaguardia della libertà di religione, in regime di pluralismo
confessionale e culturale”. Nella stessa direzione va la sentenza n. 329 del
1997. Qui si dice che il principio di laicità “comporta equidistanza e
imparzialità della legislazione rispetto a tutte le confessioni religiose”. Quindi
la Repubblica può tutelare il fenomeno religioso, ma lo deve fare in modo
uguale per tutte le confessioni religiose. 

Ne
consegue che sono da considerare incostituzionali (e in gran parte sono state
dichiarate tali) le norme che prevedevano o prevedono un trattamento
privilegiato nei riguardi della chiesa cattolica (fra le tante si veda la
sentenza n. 440 del 1995 della Corte costituzionale). Interessante è che in
questa decisione la Corte costituzionale ha chiarito come il numero di fedeli
non abbia rilievo. Infatti il sentimento religioso deve essere tutelato in modo
uguale essendo un aspetto che riguarda ogni singolo individuo.
Per quanto riguarda la libertà religiose dei singoli va ricordato l’art.
19 della Costituzione che consente a tutti di professare la propria religione,
di farne propaganda, di esercitarne il culto (solo con riguardo ai riti si dice
che essi non devono essere contrari al buon costume. Il buon costume va inteso
che aspetto che riguarda la comune morale sessuale).
In merito alla libertà religiosa dei singoli il problema principale che
si è posto in Italia riguarda i simboli religiosi. In particolare i crocifissi.
In due importanti decisioni del Tar Veneto e del Consiglio di Stato si è
detto che l’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche non lede il
principio secondo il quale lo spazio pubblico deve essere neutrale rispetto
alle questioni religiose. Si dice, infatti, che il crocifisso è un simbolo con
un carattere anche culturale e che quindi non rappresenta solo principi della
fede religiosa cristiana (si vedano Tar Veneto, sentenza del 22 marzo 2005, n.
1110 e Consiglio di Stato, 13 febbraio 2006, n. 556).
Per quanti riguarda il velo islamico, a volte alcuni sindaci, prendendo a
pretesto la necessità dii tutelare l’orine pubblico, hanno vietato alle donne
di indossarlo. In alcuni casi la questione è stata poi affrontata dai giudici
che hanno ritenuto non corretti questi provvedimenti. Le norme sulla pubblica
sicurezza non impediscono di usare il velo, ma solo di garantire la
riconoscibilità delle persone e che il velo sia tolto se ciò è richiesto da
agenti di pubblica sicurezza che debbano effettuare il riconoscimento di una
persona.
Questo è quanto riguarda l’Italia. In altri paesi, come ad esempio la
Francia, la laicità è intesa come necessaria neutralità dello Stato. Il
fenomeno religioso è solo un fenomeno privato. Si arriva al punto di impedire
in alcuni luoghi pubblici di indossare i simboli religiosi.
Una recente legge francese ha persino vietato alle donne di indossare in
pubblico il velo. La ragione, formalmente indicata, è quella di garantire
l’ordine pubblico e la sicurezza (sotto il velo potrebbero essere nascoste armi
ed occorre garantire che il volto sia visibile sempre). Il vero motivo era
quello di impedire alle donne di indossare il velo perché lo si vedeva come
ostentazione di una fede e come possibile segno di segregazione delle donne.
Della questione si è occupata la Corte europea dei diritti dell’uomo.
Sulla questione del velo la Corte europea ha sempre riconosciuto un
grande margine di discrezionalità agli stati. Nel caso della legge francese la
Corte ha reso una sentenza in un certo senso ambigua. Da una parte ha molto
criticato la legge francese che prende il rischio di essere un elemento di
tensione e di conflitto fra religioni. In altre parole, la legge minerebbe la
convivenza civile e metterebbe lo stato in contraddizione col proprio ruolo di
soggetto che garantisce la pacifica convivenza.
Però il divieto imposto dalla legge non viene considerato come in
contrasto con le regole sulla libertà religiosa sancita dalla Cedu. Si dice che
lo stato è intervenuto per garantire il rispetto dei diritti di quanti non
indossano il velo e si dice che il viso è un elemento di comunicazione e che
quindi lo stato può decidere di richiedere che esso sia visibile nel
complesso. 
Giur.
Corte edu sul velo islamico
Le sentenze della Corte
europea relative ai divieti o alle restrizioni sull’utilizzo del velo islamico
(o, anche se in misura quantitativamente più ridotta, di altri simboli
religiosi che possono essere indossati dai singoli) sono diverse e nel
complesso paiono tra loro tutto sommato coerenti.
Occorre
tenere presente che la Corte europea è chiamata a pronunciarsi sulla violazione
dei diritti dell’uomo in singoli casi e, operando a livello sovranazionale, dà
molta attenzione al contesto normativo, politico e sociale del singolo
convenuto, anche se le valutazioni di volta in volta svolte spesso contengono
un giudizio generale sulla disciplina vigente a livello nazionale.
Ciò
posto, i casi fondamentali in materia vedono coinvolte discipline che vietano
(in presenza di certe condizioni) di indossare il velo in stati che hanno fatto
proprio il principio di laicità in senso negativo.
Ci si
riferisce ai divieti previsti in Francia e in Turchia, posti all’attenzione
della Corte europea nei casi Leyla Sahin c. Turchia (2005) e S.a.s. v. Francia
(2014).
Si
prenderà in considerazione anche una decisione che ha un rilievo significativo,
pur non incentrata sul divieto di indossare il velo islamico, riguarda Merve
Kavakçi,
una parlamentare turca che ha tentato di entrare in Parlamento nella prima
riunione dopo la sua elezione e prestare giuramento indossando il velo islamico
(non integrale, bensì chador). 
La
prima decisione significativa in ordine cronologico e che ha fissato i criteri
di giudizio che poi saranno seguiti in modo abbastanza costante, sia pur con
qualche precisazione, dalla Corte, è il caso Leyla Şahin v. Turkey (ric. n. 44774/98, 2005).
La
pronuncia trae origine dal ricorso alla Corte europea di una studentessa turca
della Facoltà di Medicina dell’Università di Istanbul contro il provvedimento
adottato dalle autorità disciplinari dell’istituto, con cui le era stato
interdetto l’accesso ad alcuni esami e lezioni, a causa del suo rifiuto di
togliersi il velo islamico durante il loro svolgimento.
È
importante segnalare che in Turchia il divieto di indossare il velo nelle
Università, allora, non era previsto a livello legislativo, ma la decisione in
merito era affidata ai singoli istituti, come le università, secondo quanto ha
affermato la stessa Corte costituzionale sulla base del dettato costituzionale.

I
diritti dell’uomo ritenuti lesi secondo la studentessa sono, in particolare,
tutelati dall’art. 9 (Libertà di pensiero, di coscienza e di religione), nonché
dagli artt. 8, 10 (Libertà di espressione) e 14 (Divieto di discriminazione)
della CEDU.
La
Corte europea, dando rilevanza allo specifico contesto turco, ha ritenuto le
misure adottate dall’Università proporzionate allo scopo perseguito, ovvero
quello di completare il processo di laicizzazione della società turca iniziato
nei primi del ‘900, in un paese, quindi, dove forte è il rischio che istanze di
tipo religioso si trasformino in rivendicazioni politico-fondamentaliste.
Più
precisamente, la Corte europea considera il divieto necessario in una società
democratica (art. 9 CEDU). Infatti, il giudice di Strasburgo afferma che il
divieto del velo serve ad impedire la discriminazione di quanti non professano
la religione più diffusa in Turchia, ovvero quella islamica.
Da
sottolineare il fatto che la Corte riconosce nel complesso un ampio margine di
apprezzamento agli stati in questo ambito.
***
Altro
caso fondamentale riguarda il divieto di indossare “une tenue destinée à
dissimuler son visage” (traducibile come un abbigliamento volto a coprire il
visto) previsto dalla legge francese dell’11.4.2011 (no 2010-1192).
Può
essere interessante ricordare che la violazione del divieto è sanzionata
penalmente, con la multa di 150 euro o l’obbligo di frequentare un corso sulla
cittadinanza francese. Inoltre, chiunque obblighi con la costrizione un altro
soggetto a coprire il volto in ragione del suo sesso è punibile con un anno di
detenzione e 30.000 euro di multa. Quando il fatto è commesso ai danni di una
minore la pena è di due anni di detenzione e di 60.000 di multa.
La
legge, dunque, è formulata in modo neutro e pare volta a tutelare la sicurezza
pubblica, posto che ciò che si vuole impedire è l’occultamento del volto.
Tuttavia, risulta chiaro, anche dall’esame dei lavori preparatori, che
l’obiettivo sostanziale è quello di impedire l’affermarsi della pratica di
indossare il velo islamico, coerentemente con l’accezione di laicità “alla
francese”, che vuole il luogo pubblico come assolutamente “neutro” e il
sentimento religioso confinato alla sfera privata.
La decisione della Corte
europea, del 1 luglio 2014 (S.a.s. contro Francia, ric. no. 43835/11), trae
origine dal ricorso di una giovane donna nata e residente in Francia, di
religione musulmana, che lamenta la violazione degli art. 3 (divieto di
tortura), art. 8 (rispetto della vita privata e familiare), 9 (libertà di
coscienza e religione), 10 (libertà di espressione) e 14 (divieto di
discriminazione) della CEDU.
La giovane donna
sottolinea che né suo marito né altri membri della famiglia le hanno imposto di
indossare il velo integrale e che l’uso che vorrebbe fare di tale indumento in
pubblico e in privato non è sistematico. Tuttavia, desidera poter essere in
grado di scegliere se indossare o meno il velo, a seconda dei casi (ad esempio,
durante il Ramadan). Essa fa notare che non chiede di
tenere il velo integrale quando, per ragioni di sicurezza, sia richiesto
dall’autorità di pubblica sicurezza che il viso sia visibile
.
Nonostante la ricorrente
non abbia subito l’irrogazione di una sanzione penale, la Corte europea ritiene
possa considerarsi vittima e dunque legittimata a promuovere il ricorso, in
quanto il divieto legislativo, pur generale ed astratto, la pone dinanzi ad un
bivio, ovvero cambiare comportamento vedendo violati i propri diritti o andare
incontro ad una sanzione penale. Si tratta di un’apertura processuale che,
peraltro, è consolidata nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo.
Venendo al merito della
decisione, la Corte europea non rinviene alcuna violazione delle norme
convenzionali ed in particolare dell’art. 9, che tutela la libertà di religione
e su cui incentra maggiormente l’attenzione.
Per prima cosa la Corte
afferma che la disciplina, ancorché sorretta da motivazioni legate alla
sicurezza e all’ordine pubblico, secondo le intenzioni apparentemente poste dal
legislatore a fondamento del divieto, incide sul rispetto della vita privata e
della libertà di religione. La Corte ritiene dunque di poter esaminare la
questione rispetto agli artt. 8 e 9 della Convezione.
Ciò posto, verificata
l’esistenza di una compressione dei diritti in esame, valuta se tale
compressione possa ritenersi legittima secondo i limiti ammessi dalla
convenzione europea stessa. In particolare, per il giudice sovranazionale viene
il rilievo la tutela dei “dei diritti e delle libertà degli altri”, detto
altrimenti le regole minime necessarie per garantire la convivenza in una
società (il “vivere insieme”). Si tratta di un elemento la cui protezione, se
necessaria alla vita democratica dello stato, può giustificare la limitazione
all’esercizio dei diritti di cui agli artt. 8 e 9.
Ebbene, la Corte ritiene
che mostrare il volto gioca un importante ruolo nella “interazione sociale”. In
virtù di un consenso diffuso, mostrare il volto è essenziale per una convivenza
civile, mentre pratiche che lo impediscano ostacolano le relazioni
interpersonali. La Corte accetta dunque che per la Francia il velo integrale
possa essere ritenuto capace violare il diritto degli altri a vivere in uno
spazio di socializzazione che faciliti la vita comune. Si tratta, per la Corte,
della nozione del “vivere insieme”, la cui tutela impone alla Corte stessa di
svolgere uno scrutinio particolarmente attento. Quindi, riassumendo, il giudice
sovranazionale considera, per le ragioni esposte, il divieto un limite
legittimo ai sensi degli artt. 8 e 9.
Da sottolineare, però,
che, in ogni caso, la Corte valuta molto criticamente la disciplina francese.
Prima di tutto, viene
sottolineato che si tratta di una legge “controversa” e percepita come
discriminatoria dai musulmani, sebbene formalmente neutra.
In secondo luogo, viene enfatizzato che,
con tale approccio, lo stato francese rischia di contribuire al consolidarsi di
stereotipi che colpiscono certe categorie di persone e di incoraggiare le
manifestazioni
di intolleranza, mentre lo stato dovrebbe al contrario promuovere la
tolleranza.
Nonostante queste
valutazioni critiche, appare ancora una volta centrale la valorizzazione da
parte della Corte del margine di apprezzamento, che in questi in questi casi è
molto ampio e consente di giustificare la strada intrapresa dallo stato
francese.
***
Si colloca su un
altro terreno, ma risulta ugualmente interessante perché interseca il tema del
divieto di indossare il velo islamico, il caso “
Kavakçi contro Turchia”, deciso dalla Corte europea nel 2007 (ric. n. 71907/01).
Il ricorso viene presentato alla Corte
Edu da due ex parlamentari turchi e ha ad oggetto la decisione della Corte
costituzionale turca di sciogliere il loro partito di appartenenza, di vietare
loro di ricoprire ruoli in partiti politici per 5 anni e di rimuovere la
parlamentare ancora in carica al momento del ricorso dal suo ufficio (sentenza
del 2001).
Un peso non indifferente, in questa
decisione, è giocato dal tentativo della ex parlamentare Kavakçi di
effettuare il giuramento dinanzi all’Assemblea indossando il velo (siamo nel
1999). La vicenda e i divieti che hanno colpito il partito di appartenenza dei
ricorrenti infatti prendono le mosse 
proprio da tale tentativo.
La vicenda prende le mosse dal tentativo
di una ricorrente (l’allora neoeletta deputata Kavakçi), nel 1999, di prestare il
giuramento dinanzi al Parlamento indossando il velo islamico. Tale tentativo è
peraltro fallito dal momento che essa era stata indotta ad uscire dall’aula per
le proteste provenienti dalle altre parti politiche (e in particolare del
partito democratico turco).
Nel giro di breve tempo da tale episodio,
poi, l’on. Kavakçi viene dichiarata decaduta dalla carica di parlamentare
in quanto sprovvista della cittadinanza turca (nel 1999), in ragione del fatto
che il partito aveva basato il suo programma politico sulla questione del
divieto di indossare il velo islamico ed era diventato un centro di diffusione
di attività contrarie al principio costitutionale supremo di laicità.
La Corte Edu, con la sentenza Kavakçi e altri c. Turchia, ha accertato che la Turchia ha violato l’art. 3 del
Protocollo
addizionale n. 1, che garantisce il diritto a libere
elezioni. In particolare, la Corte europea ha ritenuto che le sanzioni
applicate ai ricorrenti non fossero proporzionate a raggiungere lo scopo, pure
legittimo, perseguito, ovvero il mantenimento dell’ordine pubblico e la tutela
della laicità dello Stato. Tale pronuncia non riguarda direttamente il divieto di indossare il velo
islamico nel Parlamento, ma la privazione della cittadinanza e prima ancora lo
scioglimento del partito in quanto incompatibile con il principio
costituzionale supremo di laicità.
***
Vi è un unico caso, in cui la Corte
europea ha rinvenuto una violazione dell’art. 9 per l’utilizzo, durante una
manifestazione religiosa musulmana, nella quale i manifestanti, di sesso
maschile, indossavano dei copricapi riconducibili a simboli religiosi. Il caso
vede coinvolta ancora la Turchia e si è verificato nel 1996 (Ahmet Arslan e altri contro Turchia, 2010,
no.
41135/98). I ricorrenti sono 127 manifestanti, musulmani
Kocatepi, di sesso maschile. Costoro, durante una manifestazione in luogo
pubblico, precedente una cerimonia da tenersi in una moschea, vengono arrestati
e detenuti in custodia cautelare. Essi indossano un turbante, dei pantaloni
tipici, una tunica e un bastone.
La legge in base alla quale sono puniti
serve a prevenire il proselitismo e la propaganda (si tratta di una legislazione
voluta da Ataturk per modernizzare il Paese) ed è rivolta a pubblici ufficiali
o ministri di culto.
La Corte europea osserva che questa
disciplina non si occupa di semplici manifestanti, come i riccorrenti,
escludendo di poter applicare la propria giurisprudenza relativa a tali
categorie di soggetti, che valuta in modo più permissivo i limiti alla libertà
religiosa.
Ciò posto, ancora una volta, viene
valorizzata l’esistenza di un ampio margine di apprezzamento in tema di limiti
alla libertà di religione.
La Corte, ad ogni modo, considera infine
che non risulta dalla difesa e dalle prove portate dal Governo turco che la
modalità con cui i ricorrenti hanno manifestato con il loro abbigliamento la
loro particolare credenza costituisca una minaccia per l’ordine pubblico e una
minaccia o pressione sulla libertà degli altri consociati.
La Corte europea rileva insomma che i
ricorrenti sono stati puniti per il loro abbigliamento in un luogo pubblico,
senza che sia provato dal Governo turco che la misura restrittiva è necessaria
per tutelare l’ordine pubblico, elemento che ai sensi dell’art. 9 della
Convenzione può giustificare limitazioni alla libertà di manifestare le proprie
convinzioni religiose.
Corte
costituzionale tedesca
La Corte
costituzionale tedesca, superando un proprio precedente del 2003, con cui aveva
ritenuto spettante alla discrezionalità dei singoli Land il potere di decidere
se vietare agli insegnanti di indossare simboli religiosi nelle scuole
pubbliche, ha affermato, in una recentissima decisione (del 13 marzo 2015), che
un divieto generale per insegnanti delle scuole statali di esprimere le proprie
convinzioni religiose mediante il proprio aspetto esteriore non è compatibile
con la libertà di religione e la libertà di professare una credenza degli
insegnanti stessi (Art. 4, 1 e 2, GG).
La Corte
si è pronunciata in seguito al ricorso presentato da due insegnanti di una
scuola statale del Land Nordrhein Westfalen (cittadine tedesche), che erano
state condannate dal giudice del lavoro ad una sanzione per essersi rifiutate
di togliere il velo durante le lezioni, nonostante il divieto della legge di
tale regione.
La ratio decidendi della pronuncia si basa
sulla affermazione di principio per cui, per giustificare il divieto, “non è sufficiente che la manifestazione di
convinzioni religiose mediante l’aspetto esteriore o mediante comportamenti
costituisca un pericolo astratto, ma deve costituire un pericolo
sufficientemente specifico di pregiudicare la pace a scuola o il dovere di
neutralità dello Stato”
Il
tribunale costituzionale tedesco sottolinea poi che la legge regionale non
contiene analogo divieto per simboli della religione cristiana, introducendo
nell’ordinamento quindi un privilegio per le tradizioni educative e culturali
Christian-occidentali e violando il divieto di discriminazione per motivi
religiosi (art. 3 sec. 3 comma 1 e art. 33 sec. 3 GG). In effetti, la legge in
questione prevede una presunzione di conformità ai valori fondamentali
dell’ordinamento costituzionale tedesco, come la dignità umana e l’uguaglianza,
i valori della religione cristiano – occidentale. Questa parte della norma,
quindi, viene dichiarata nulla.
Il giudice costituzionale
riconosce quindi necessario interpretare costituzionalmente conforme l’altra
norma della legge regionale, intendendo il divieto legislativo in modo
restrittivo e dunque come non riferito ai casi in cui l’insegnante si limita ad
indossare il velo, senza per questo costituire un pericolo per la libertà e
dignità degli studenti.
Il potere dei Laender in materia,
dunque, non è del tutto eliminato, ma rimane rispetto ai casi in cui
concretamente il velo costituisce un pericolo.
In
conclusione, la ratio decidendi della
Corte tedesca lascia margini per una applicazione del divieto a seconda delle esigenze
del caso concreto (il divieto dovrebbe sussistere in caso di effettivi abusi da
parte dell’insegnante del proprio ruolo a fini di propaganda religiosa,
qualunque essa sia). Tale costruzione della pronuncia si impernia sulla
valutazione del giudice costituzionale dell’attuale contesto storico, in cui la
scuola pubblica è “interconfessionale” e rispecchia una società pluralista, ed
in cui quindi indossare abiti con una
connotazione
religiosa non
costituisce di per sé un’interferenza con la libertà di religione
negativa
degli alunni e con la
loro
libertà di professare
una fede. A questo proposito, il giudice federale afferma di
essere consapevole che l’adesione manifesta di un insegnante ad una fede
religiosa è oggi “compensata”
dal comportamento di
altri membri del personale con l’adesione di
diverse fedi e
ideologie
.
Si tratta
di un punto di vista, questo, non solo molto autorevole, provenendo da una
delle Corti costituzionale che in Europa ha maggiore seguito culturale, ma
anche molto interessante, che pare, almeno ad un primissimo esame e pur tenendo
conto del diverso contesto, porsi agli antipodi rispetto alla matrice culturale
valorizzata dalla Corte europea per giustificare il divieto francese di
indossare il velo integrale negli spazi pubblici (caso S.a.s. contro Francia,
2014, v. infra). Anche tenendo conto che in questo ultimo caso ci si riferisce
solo al burqa e ai luoghi pubblici, e nel primo ai soli insegnanti di scuole
pubbliche che manifestano le proprie convinzioni religiose mediante il loro
aspetto esteriore, pare possibile intravedere, nell’approccio attento a
salvaguardare il pluralismo religioso del giudice costituzionale tedesco, e
nell’approccio teso a salvaguardare la neutralità intesa come separazione dalla
sfera religiosa del legislatore francese, ritenuto compatibile con la CEDU
dalla Corte di Strasburgo (sia pure con alcune valutazioni negative), le due
concezioni di laicità positiva e negativa.