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Bogdan Hrib: un estratto tradotto da “L’ultima fotografia”


Carissime lettrici, carissimi lettori,
per continuare il nostro viaggio nella letteratura romena, vi proponiamo oggi un estratto tradotto dalla collega Sara Salone e tratto dal romanzoa “L’ultima fotografia” di Bogdan Hrib.
Alla prima lettura emerge l’importanza dell’incontro con altre culture per perseguire il proprio percorso identitario. 
Che cosa sarebbe un percorso identitario senza mare, senza orizzonte, senza porto?
Grazie a tutti dell’attenzione
Cordiali saluti
Dr. phil. Milena Rampoldi – ProMosaik e.V.


PORTO
Una parola meravigliosa,
rotonda. Elegante. Con delle belle lettere, curve e linee dritte. Solo cinque
lettere. Splendido. Sto delirando…
I porti sono lo specchio
delle città, uno specchio con due facce, una sul mare, una sulla terra. Ho
visitato la Danimarca, ho passeggiato lungo gli stretti moli dalle decine o
centinaia di imbarcazioni ancorate e sono giunto alla conclusione che i Danesi
sono un popolo che non si sente a suo agio sulla terraferma, come se per essi
ogni città fosse solo un rifugio, uno scalo, una tappa. Anche gli Inglesi sono
così. I Portoghesi. E altri. Forse… E Caja?
Non ne posso più e nemmeno
ne ho voglia. Non voglio pensarci oltre, desidero solo lasciare carta bianca al
destino…
Attraccheremo a Città del
Capo.
Non ho nessun aneddoto sui
porti. Avevo un amico ricco, proprietario di una barca sul lago Snagov; mi ha
invitato molte volte, ma non ci sono mai andato, mi sembrava sconveniente, mi
sarei sentito un impostore. Io sognavo uno yacht o una iole, fantasticavo di
navigare solitario sulla mia nave. Come tutti noi… non voglio più storie.
Perché diavolo ho inserito
questa parola nella lista? Perché mi piacciono i porti e il mare, forse? O
perché mi piace molto come suona la parola? Non ne ho idea. E ora me la tengo.
Non ho più voglia di altri cambiamenti nella mia vita. Rimane così. Porto. E
bevo un lungo sorso di birra fresca.
Il gigantesco bastimento
attracca all’ultimo porto prima del Capo di Buona Speranza… L’ultimo porto dei
fantomatici navigatori sperduti durante il viaggio verso le nuove Indie. Solo
che noi abbiamo fatto il percorso inverso, dall’Oceano Indiano. Abbiamo    oltrepassato la punta dell’Africa… Cerco di
immaginare che i navigatori siano venuti dall’Europa e che domani sulla terra,
sulla terraferma, raggiungerò Cape of
Good Hope
.
Qui dovrebbe esserci
l’ultimo scalo, l’ultimo rifugio. Definitivo. Capolinea.
Ma non voglio pensarci
perché non voglio forzare il destino…
All’ora del tramonto la
città con tutti i suoi edifici bianchi, che ora porta la maschera
dell’arcobaleno, è accogliente e calda. Cercherò un posticino tranquillo e mi
berrò una birra. O due. Una birra del posto, e guarderò nel vuoto. Senza fretta.
Senza pensieri.
E’ il rifugio che desidero.
Da solo. Sulla terra. Sulla terraferma.
Bentrovata, Città del Capo.