General

A sostegno di Biram, contro la Schiavitù


22.08.2015
Gianmarco Pisa

A sostegno di Biram, contro la Schiavitù
 
(Foto di IRA Mauritania)

È stato finalmente celebrato lo scorso 20 agosto, nel più tombale
silenzio da parte dei grandi organi di informazione, il processo a
carico di Biram dah Abeid e Brahim Bilal Ramdhane, esponenti di primo
piano del movimento anti-schiavista IRA Mauritania, detenuti in carcere,
sinora senza processo degno di questo nome, dallo scorso 25 novembre.

Il 25 novembre, infatti, è stata definitivamente confermata la
prigionia per gli attivisti (all’inizio cinque), che da subito è apparsa
come una tipica reclusione per motivi politici, dal momento che i fatti
contestati riguardano la “mobilitazione di Rosso” del precedente 11
novembre. L’11 novembre il movimento anti-schiavista, IRA, aveva
organizzato una pacifica “carovana di protesta”, nella città di Rosso, a
Sud del Paese, al confine con il Senegal, portando in uno dei luoghi
più “sensibili” dell’intero Paese, dove più forte è la presenza della
minoranza nera haratin, la stessa sulla quale si ripercuotono
in maniera più feroce la discriminazione etnica e lo sfruttamento
schiavistico, la propria voce contro la schiavitù. Non solo, a ben
vedere, contro la schiavitù, sebbene questa rappresenti la forma e la
pratica più anti-storica e degradante contro la quale il movimento si
batte; ma, più in generale, contro il regime liberticida in vigore in
Mauritania, contro la diffusione di una pratica schiavistica ancora
ampiamente praticata nel Paese, per la fine delle discriminazioni su
base etnica che ancora si registrano nel Paese e per il pieno ed
autentico riconoscimento di tutti i diritti umani e civili, di tutti i
diritti umani per tutti e per tutte, nel Paese.

Ci sono dunque voluti, allo scorso mese di gennaio, quasi tre mesi,
affinché le autorità giudiziarie mauritane “convalidassero il fermo”,
vale a dire confermassero la prigionia per gli attivisti del movimento
dopo i fatti di Rosso, con una doppia accusa, peraltro, di resistenza a
pubblico ufficiale (resistenza alla forza pubblica ) e di organizzazione
di manifestazione non autorizzata (d’altro canto, la stessa IRA, in
quanto movimento anti-schiavista ed anti-regime, è un movimento non
riconosciuto e non autorizzato dalle autorità al potere). A rendere più
grave il contorno politico di questa condanna e di questa prigionia, vi è
il fatto che Biram, da oltre un anno a questa parte, non è solo un
attivista sociale, uno degli esponenti più in vista tra i movimenti per i
diritti presenti nel Paese (ve ne sono: organizzazioni anti-schiaviste,
come la storica SOS Esclaves o la Kawtal, per i diritti delle donne,
come l’Associazione delle Donne Capo Famiglia e così via), ma anche un
leader politico, un esponente politico di primo piano nella scena
pubblica del Paese.

Alle ultime elezioni presidenziali, celebrate il 21 giugno dell’anno
passato, Biram aveva affrontato il presidente uscente e rieletto,
Mohamed Ould Abdel Aziz, giungendo a grande distanza dal vincitore, ma
riuscendo a fare convergere su di lui più o meno il 9% dei consensi
dell’intero Paese. Con questo passaggio, peraltro importante, la causa
di Biram (e dell’IRA, da lui fondata nel 2008) continua ad identificarsi
con quella della liberazione degli schiavi e degli “haratin” (parola,
che tra l’altro, deriva proprio dalla parola “libertà”, dal momento che,
noti come “mori neri”, e costretti per decenni al rango di schiavi dei
“mori bianchi”, discendenti dai conquistatori arabi, divennero,
formalmente, “schiavi liberati” all’indomani della prima legge
“abolizionista”, datata al lontano 1905), ma non si riduce o si
esaurisce in quella, venendo a dotarsi cioè di una prospettiva di
liberazione più ampia, che parla a tutto il Paese, alle molteplici
pratiche di schiavitù consolidate e alle diverse forme di
discriminazione, marginalizzazione, quando non vera e propria
segregazione razziale, che vengono, a più riprese, denunciate dagli
attivisti e dalle organizzazioni internazionali.

«Nel nostro Paese – riportiamo le parole dello stesso Biram in
occasione del suo incontro alla Casa Bianca del 2014 – vige un sistema
clientelare che favorisce gli arabo-berberi in tutti i settori
dell’economia nazionale: dall’estrazione mineraria, alla pesca, ai
servizi. Più del 90% dei lavoratori portuali e dei lavoratori domestici
sono “haratin”, l’80% della popolazione analfabeta è “haratin”. Eppure
nel 2013, solo 5 su 95 seggi presso l’Assemblea Nazionale erano occupati
da questo gruppo. I “mori bianchi” fanno profitto, i “mori neri” sono
manodopera». Si calcola che, su 3.5 milioni di abitanti, siano almeno
700 mila le persone costrette a vivere, del tutto o in parte, alle
dipendenze di un “padrone”. Sono anche detti “schiavi neri” e hanno
un’origine affine alle etnie indigene (wolof, soninke e bambara), che
nel loro insieme costituiscono la metà della popolazione. È bene
ricordare che esistono, in Mauritania, almeno tre forme di schiavitù ben
identificabili: vi è una schiavitù domestica, legata al lavoro non
retribuito presso le case e le dipendenze dei “padroni”; una schiavitù
minorile, esercitata attraverso lo sfruttamento di minori figli di
schiavi, costretti a separarsi dalla famiglia ed “impiegati” come
schiavi per discendenza; e una schiavitù rurale, legata all’esercizio
del lavoro agricolo e pastorale in regime di evidente sottomissione.

È bene anche ricordare che, intorno al consolidamento della pratica
schiavistica, si reggono interessi ancestrali e centri di potere
inter-clanico, vero e proprio supporto al potere di Mohamed Ould Abdel
Aziz, giunto per la prima volta al potere nel Paese all’indomani di un
colpo di stato militare nel 2008. Appena l’anno prima, tra l’altro, era
stata approvata dal parlamento mauritano una legge che dichiarava la
schiavitù per la prima volta un reato “penale”: se si vuole, la gravità
di una situazione nella quale l’intero XX secolo è trascorso
considerando la schiavitù poco più che una irregolarità
“amministrativa”, è confermata dal fatto che solo recentemente, lo
scorso 12 agosto, il parlamento ha ufficialmente previsto di raddoppiare
la pena per i colpevoli di reato di schiavitù – fino a 20 anni di
carcere – garantendo alle vittime, sulla carta, processo regolare ed
assistenza legale gratuita. Ma come si fa a cogliere in flagranza un
“padrone” nell’esercizio del reato di schiavitù? Quale voce hanno le
vittime, di fronte al potere, nel denunciare ed essere “riconosciute”
dalle autorità al governo del Paese? Quale visibilità le organizzazioni
più combattive nel portare avanti la propria battaglia e nel tutelare le
vittime? Non c’è da stupirsi che, nell’ultimo provvedimento di legge,
il Parlamento abbia concesso solo alle ONG “ufficialmente riconosciute”
la possibilità di denunciare i casi di schiavitù e di assistere le
vittime di schiavitù.

In questa cornice “legale”, Biram e l’IRA sono una vera e propria
spina nel fianco per il potere, e del tutto illegittimi ai suoi occhi.
Nel processo del 20 agosto scorso, dunque, è stata confermata la
condanna a Biram e Brahim, per le motivazioni politiche loro contestate,
a due anni di carcere. Peraltro, il processo si è svolto in un contesto
lontano dallo “stato di diritto”: agli “imputati” sono stati imposti
dei difensori d’ufficio, scavalcando i difensori dei due, avendo Biram e
Brahim confermato di non volere partecipare a una tale farsa e di non
voler rispondere alle domande dei giudici; mentre dubbi sono stati
sollevati anche sulla sede del processo, che non è basato né a Rosso,
città natale di Biram, dove si sono svolti i fatti contestati, né a
Nouakchott, capitale del Paese e sede dell’IRA, bensì ad Aleg, ove è
presente un carcere di massima sicurezza, tristemente noto come la
“Guantanamo d’Africa”.

Il che non deve indurre l’opinione democratica e la coscienza civica
alla disperazione: come spesso gli esponenti del movimento ci hanno
ripetuto, la lotta continua e deve diffondersi. Marce e presidi,
mobilitazioni e sit-in, e ogni forma di pressione presso le autorità
nazionali e internazionali, perché riconoscano il problema della
schiavitù e prendano posizione ed assumano iniziative contro il potere
che su questa pratica si fonda. L’ultimo appello internazionale,
lanciato pochi giorni fa, ha sfiorato, in questo momento, il milione di
sostenitori. Facciamo sentire, anche attraverso questo strumento, la
nostra voce:

https://secure.avaaz.org/it/mauritania_anti_slavery_biram_loc_dn_rb