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Un importante Articolo di Lavoro Culturale sulla Palestina

Palestina: rischio di stato

Di
21 ottobre 2014 

A inizio ottobre il neoeletto premier
svedese Stefan Löfven ha annunciato che il suo governo intende
riconoscere ufficialmente lo Stato di Palestina. Qualche giorno più
tardi, il 13 ottobre, il parlamento britannico ha approvato con una
maggioranza schiacciante una mozione, “non vincolante” per l’esecutivo, a
favore di un simile riconoscimento da parte del Regno Unito. Queste
decisioni di Svezia e Gran Bretagna sono state largamente interpretate
come uno sviluppo positivo, in particolare come la rottura di un tabù
europeo e occidentale nei confronti del diritto del popolo palestinese
all’edificazione di un proprio Stato indipendente. Tanto più che altri
Stati del vecchio continente stanno esprimendo il loro interesse a
intraprendere un tale passo come ad esempio la Spagna. In modo simile si
era guardato anche alla decisione dell’Assemblea Generale dell’Onu due
anni fa di elevare la Palestina alla posizione di “Stato osservatore
non-membro”, lo stesso del Vaticano.

Maroun-Palestine

Nonostante il generale apprezzamento dell’opinione pubblica e delle
organizzazioni vicine alla causa palestinese e l’approvazione da parte
dell’Autorità Palestinese (AP), queste decisioni comportano alcune
problematicità. Non si tratta di puntigli ideologici come sarebbe facile
pensare, ma di problemi di fondo legati a una comprensione distorta e
superficiale della questione della Palestina da parte del pubblico,
delle istituzioni e degli attori politici europei.

Lo Stato di Palestina che verrebbe finalmente riconosciuto dovrebbe
coincidere con i territori occupati da Israele durante la guerra del
giugno 1967, ovvero Cisgiordania e Striscia di Gaza con capitale
Gerusalemme Est. Questa configurazione territoriale infatti è quella
prevista dagli accordi di Oslo firmati da Olp e Israele nel 1993.
Chiunque sia minimamente aggiornato sulla situazione in Palestina, può
facilmente comprendere come una tale prospettiva sia del tutto
inattuabile a livello pratico: sin dalla prima occupazione infatti,
Israele ha portato avanti politiche di stampo coloniale volte da una
parte ad annettere di fatto porzioni sempre maggiori di territorio sotto
il suo controllo amministrativo e militare, dall’altra a frammentare e
chiudere le aree destinate al reinsediamento della popolazione indigena.
Oltre a rendere materialmente impossibile la creazione di due stati
separati all’interno della Palestina storica, Israele ignora e viola da
oltre vent’anni i termini degli accordi di pace, le risoluzioni
dell’Assemblea Generale e del Consiglio di Sicurezza dell’Onu e
qualunque monito di istituzioni governative e Ong. Spesso si indicano
queste pratiche per spiegare il fallimento del processo di pace,
trascurando però il vizio di fondo di tali accordi, lo stesso vizio che
oggi dovrebbe far apparire il riconoscimento dello Stato di Palestina
non solo del tutto privo di conseguenze concrete, ma addirittura
potenzialmente controproducente ai fini di una soluzione giusta e
duratura del conflitto in Palestina.

Ogni negoziato, soluzione o misura pensata all’interno della cornice
teorica e istituzionale creata dagli accordi di Oslo infatti, da una
parte ignora consciamente, come gli accordi stessi, alcuni degli aspetti
alla base della questione palestinese nonché del conflitto con
Israele. Dall’altra contribuisce attivamente al rafforzamento dello
status quo e quindi dell’impasse insormontabile che si osserva da
vent’anni a questa parte. Una delle colpe di fondo del sistema Oslo
risiede nella frammentazione del territorio della Palestina storica. In
questo senso, esso si presenta come continuazione del progetto di
conquista coloniale precedente e come premessa e contesto di quello
tutt’ora in corso.  A riprova di ciò, basti pensare all’impianto di
“integrazione economica” tra Israele e futuro Stato palestinese, una
componente importante nel quadro teorico che soggiace al processo di
pace. Inoltre, il concetto di “terra per pace”, altro pilastro dei
negoziati tra Israele e Paesi arabi, e le sue conseguenze pratiche sul
terreno, rappresentano un altro punto egualmente problematico. La
traduzione pratica di questo principio sui territori che dovrebbero
costituire il suolo dello Stato di Palestina, ha fatto dell’AP il
principale organo di polizia responsabile della sicurezza di Israele,
facilitando significativamente i compiti dell’esercito di occupazione
nelle sue attività di contrasto alla resistenza organizzata. D’altra
parte, la collaborazione tra AP e governo israeliano ha minato,
probabilmente in maniera definitiva, la legittimità delle istituzioni
para-statali negli occhi della popolazione palestinese.

Strettamente legato al problema della frammentazione territoriale,
troviamo poi il problema dell’amnesia che ha colpito sia la comunità
internazionale sia i vari attori politici palestinesi circa la questione
della diaspora palestinese in varie parti del mondo arabo e oltre: la
dimensione delle shatat (in arabo le comunità della diaspora) e
il diritto al ritorno per i profughi delle guerre del ’48 e del ’67,
una volta centrali nella narrativa del movimento nazionale palestinese,
sono aspetti a oggi completamente ignorati. Nemmeno negli ultimi mesi,
durante i quali centinaia di palestinesi si uniscono ai profughi siriani
in fuga e per la prima volta lasciano Gaza, nel tentativo di
raggiungere i confini meridionali dell’Europa, si è mai fatta menzione
della loro situazione di partenza, del perché essi si trovassero in
Siria o in Libano o di quali avvenimenti storici li avessero portati lì.
Questa amnesia si estende anche ai cosiddetti cittadini arabi di
Israele, i “Palestinesi del ’48”, ovvero coloro che si ritrovarono sui
territori del futuro Stato ebraico al momento della nascita di Israele e
i loro discendenti.

I membri della minoranza palestinese con
cittadinanza israeliana, a oggi il 20 per cento circa della popolazione,
vengono costantemente trascurati nonostante la loro situazione non sia
affatto priva di problematicità. Sebbene essi godano di molti più
diritti e libertà rispetto agli abitanti della Cisgiordania o della
Striscia di Gaza, nondimeno il governo israeliano attua varie politiche
discriminatorie nei loro confronti volte ad esempio a ostacolarne,  o
addirittura precluderne, l’accesso alla formazione superiore, a
limitarne la libertà di movimento, fino ad arrivare a una vera e propria
esclusione dei rappresentanti politici arabi, per i quali è pressoché
impossibile confrontarsi e collaborare con i deputati ebrei durante i
lavori della knesset.
Alla luce di queste considerazioni è quindi legittimo domandarsi se
qualunque azione, per quanto dal forte potere simbolico ed evocativo,
volta a sostenere la soluzione a due Stati come il riconoscimento
ufficiale dello Stato di Palestina, non sia in realtà una mossa del
tutto priva di conseguenze concrete nella migliore delle ipotesi, o
addirittura contribuisca a tenere in vita un sistema che ha semplificato
la pratica coloniale, impedito lo sviluppo dell’economia palestinese,
peggiorato significativamente le condizioni di vita della popolazione
dei territori occupati e che nei fatti ha reso impossibile anche solo
speculare su possibili soluzioni a lungo termine, nella peggiore.

Per concludere, queste riflessioni potrebbero riallacciarsi anche al
dibattito interno al movimento di Boicottaggio Disinvestimento e
Sanzioni (Bds), probabilmente la più importante ed efficace esperienza
di mobilitazione internazionale contro l’occupazione e l’apartheid
israeliana, circa gli obiettivi delle azioni di Bds. Gli aderenti e i
simpatizzanti di questo movimento, infatti, si dividono talvolta tra
sostenitori di un boicottaggio generalizzato di tutte le aziende, i
prodotti o le istituzioni israeliane e coloro che invece appoggiano
l’idea di boicottare solo gli enti con sede e attività nelle colonie in
Cisgiordania, riconosciute come illegali dal diritto internazionale.
Anche in questo caso, la divisione di fondo è tra chi crede nell’utilità
di continuare a sostenere l’idea di creare due stati indipendenti e
separati e chi, diversamente,  pensa che sia necessario riformulare
radicalmente le fondamenta sui cui basare qualunque ipotesi di soluzione
duratura.